In alcuni Paesi è la criminalità organizzata, in altri gli apparati statali, e altrove sono veri e propri potentati economici a sentirsi minacciati dalla libertà di informazione e a voler limitare l’azione dei giornalisti; ma di certo c’è che il problema è assai grave. La libertà di stampa non rappresenta ancora una conquista consolidata e certa per le democrazie che popolano il pianeta.
Nel 73% dei 180 Stati esaminati sulla condizione degli operatori dell’informazione, l’organizzazione Reporter senza frontiere ha rilevato che essi operano in condizioni classificate come “gravissime”, “difficili” o “problematiche” per la professione. Mentre l’Italia continua a occupare il posto n. 41 della classifica, il fondo della classifica resta a Eritrea e Corea del Nord. Oltre alla Cina, questa “zona nera” vede buona parte delle nazioni del Nord Africa e del Medio Oriente (Siria, Arabia Saudita, Yemen, Libia, Egitto, Iran, Iraq).
La cosiddetta “zona bianca”, con in testa la Norvegia, si è ristretta a soli 12 Paesi. La pandemia in corso non ha certamente facilitato le cose, anzi ha fatto diminuire ulteriormente gli spazi d’azione, camuffando altre losche esigenze dietro lo scudo della limitazione dei contatti. Il risultato è che sono 50 i giornalisti uccisi nel corso del 2020, e solo pochi tra questi sono rimasti vittime di combattimenti in luoghi di conflitto armato. Insomma, informare è un mestiere pericoloso per chi vuole esercitarlo cercando di andare oltre i dispacci ufficiali e di vederci chiaro.