Il Vangelo di questa domenica ci propone l’immagine della vite e dei tralci con la quale Gesù spiega ai discepoli il rapporto tra lui (noi) e il Padre.
L’identità del Signore
“Io sono” (Gv 15,1) è il nome di Dio. Ce lo rivela il libro dell’Esodo. Mosè chiede a Colui che si è rivelato nel roveto ardente (Es 3,1-6) la sua identità. Dio gli risponde: “Io sono” (Es 3,13-15). Il termine non indica affatto un soggettivismo e individualismo estremo. Il Signore si era rivelato a Mosè già come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (v. 6) e aveva definito Israele “suo popolo” (v. 7). Nell’inviare Mosè a liberare il suo popolo, non lo lascerà solo: “Io sarò con te” (v. 11).
Il Signore, mentre definisce la sua identità, dà un’identità anche a chi rimane in Lui, e crea un legame non di possesso, ma di amore liberante: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). Mentre afferma la sua identità di Pastore Bello (“Io sono il Buon Pastore”, Gv 10,11), Gesù, definisce noi come il suo gregge (v. 14-15), per il quale dà la vita. Ce lo ha ricordato il Vangelo di domenica scorsa (Gv 10, 11-18).
Nel Vangelo che leggiamo in questa domenica, mentre si autodefinisce, “io sono la vite”, dà il nome a ciascuno di noi: “Voi siete i tralci” (Gv 15,5). Non solo definisce la relazione con noi: gregge e tralci, ma ci lega in stretta connessione anche con il Padre, a cui dà il nome di agricoltore (Gv 15,1).
L’immagine della vigna
Dall’immagine legata alla pastorizia, Gesù passa a descrivere le relazione con il Padre e con noi attraverso le immagini contadine legate alla vigna. Essa rappresenta fin dalla tradizione profetica l’immagine del popolo di Israele. Isaia descrive questa rappresentazione nel “canto della vigna” al capitolo 5: “Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna” (5,1).
Una vigna amata di cui il Signore è il custode: “In quel giorno la vigna sarà deliziosa – cantatela! – Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi ne ho cura notte e giorno” (Is 27,2-3).
La cura della vigna e la cura del Signore per noi
La cura della vigna è una perfetta simbologia della cura che il Signore ha nei confronti del suo popolo e per ciascuno di noi. Se non rimaniamo in Lui, perdiamo la nostra vita; se ci separiamo da Lui, la linfa vitale che ci tiene in vita non ci raggiunge più. Il testo descrive questo legame nel rapporto vite/tralci: i tralci hanno vita e producono i grappoli d’uva solo se rimangono innestati nella vite.
Così i nostri frutti di bene sono possibili solo se in profonda comunione con Lui. Affinché si producano frutti abbondanti, come la vite ha bisogno della potatura, così la nostra vita redenta ha bisogno di continua cura (Gv 15,2-3).
Le prove che sperimentiamo nella nostra vita di credenti accrescono la nostra capacità di amare, amplificando le nostre opere buone.
L’opera dell’agricoltore esprime la cura per la vigna non solo con la potatura, affinché la vite porti più frutto, ma anche con il taglio netto dei rami che sono diventati secchi. Non portano più frutto perché la linfa vitale, che procede dalla vite al tralcio, ha trovato un ostacolo.
Nella vita di fede, se ci lasciamo andare, se non curiamo più il legame vitale con il Signore, siamo come i rami secchi: morti, incapaci di generare nuova vita.
La vita di Paolo frutto della “potatura” del Signore
Nella Parola di questa domenica troviamo uno dei frutti più belli della potatura del Signore: Paolo di Tarso. Si definisce fariseo quanto alla legge, persecutore dei cristiani quanto allo zelo (Fil 3,5-6), e la sua fama era rimasta anche dopo la conversione: “Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui” (At 9,26).
Ma l’incontro con il Cristo risorto lo rende cieco alla sua pretesa di vedere (At 9,3-9).
Paolo ha iniziato invece a vedere con occhi nuovi, e lo stesso zelo si è trasformato nella passione per il Signore e per l’annuncio del Vangelo. Il legame con Cristo, per Paolo, è divenuto inscindibile dalla sua stessa vita: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Gesù ha preso possesso della sua vita, rendendolo veramente libero. Per questo, Paolo può affermare: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Ma anche Paolo, innamorato di Cristo, tutt’uno con Cristo, ha bisogno della Chiesa per verificare la verità del suo amore per Cristo. Ha bisogno di verificare se il suo insegnamento su Cristo non sia magari sua “invenzione” (Gal 2,2).
Infatti la prima lettura ci dice che Paolo “aveva predicato con coraggio a Damasco” e nello stesso tempo “andava e veniva da Gerusalemme” per stare con gli altri apostoli (At 9,27-28).
Amore per Cristo e amore per la Chiesa
L’amore per Cristo è inscindibile dall’amore per la Chiesa: l’amore per la Chiesa è prova dell’amore per Cristo. Il rimanere in Lui è reso possibile dal rimanere con la Chiesa: solo così si è discepoli di Cristo, e quindi tralci ricolmi di grappoli maturi.