Referendum. negato

La Regione Umbria (e non solo) ha zittito il referendum sugli stipendi dei politici. Ma non è ancora detta l'ultima parola

Come riportato su La Voce della settimana scorsa, il referendum convocato per l’11 novembre per il dimezzamento degli stipendi dei Consiglieri regionali (ben 20.000 euro lordi mensili, tra indennità fissa, diaria, rimborsi, spese di rappresentanza, ecc.) non si terrà. Con delibera del 19 giugno scorso, infatti, il Consiglio regionale dell’Umbria ha dichiarato decaduto il referendum, essendo già stato soddisfatto – a parere loro – dalla nuova legge regionale dell’8 maggio 2007, che ha diminuito del 4,47% le indennità dei consiglieri stessi. Il Comitato referendario ha denunciato la scandalosa decisione e ha annunciato ulteriori iniziative. È da sottolineare che le vicende umbre non sono le sole in Italia. Anche in Sardegna dal 2004 giace in Commissione una proposta di legge di iniziativa popolare, forte di ben 17.000 firme riconosciute valide ed ammissibili, per il dimezzamento delle indennità dei Consiglieri regionali. Vani però i tentativi di portarla al voto dell’assemblea regionale, nonostante lo Statuto sardo preveda l’obbligo dell’esame in aula delle leggi di iniziativa popolare. Anche in Abruzzo c’è fermento popolare. Dal 28 giugno, partiranno ben 4 referendum regionali che mirano però non solo a diminuire le indennità dei Consiglieri regionali, attualmente di 8.082,31 euro lordi mensili, ma anche ad abrogare i loro trattamenti aggiuntivi (da 2.000 a 6.000 euro mensili secondo gli incarichi), i vitalizi (da minimo 3.000 euro mensili), ecc. In Toscana altri Comitati referendari si stanno organizzando per analoghe iniziative, ma ancora non sono formalizzati. Ci si trova, pertanto, di fronte ad un fenomeno democratico che va espandendosi, accomunato da un giudizio comune: i costi regionali della politica si stanno moltiplicando a danno dei cittadini, e soprattutto dello stato sociale, sottoposto a tagli sempre più severi. Anziché risparmiare riducendo costi e sprechi, Regioni ed enti locali stanno aumentando le tasse addizionali (Irpef e Ici) e le tariffe dei servizi (acqua e rifiuti). L’atteggiamento prevalente sinora riscontrato da parte degli amministratori non è di attenzione ma di arroccamento: le proposte di legge di iniziativa popolare non vengono neanche portate in Consiglio regionale oppure, come avvenuto in Umbria, i referendum, pur convocati, non vengono fatti svolgere. È forte la sensazione che siano negati i diritti democratici dei cittadini. I Comitati referendari non ci stanno. Hanno chiesto un’audizione alla Commissione parlamentare bicamerale per gli Affari regionali, presieduta dall’on. Leoluca Orlando. Ottenendola: sono stati convocati il 18 luglio prossimo. Allo stesso tempo i Comitati regionali dell’Umbria e della Sardegna stanno già preparando i ricorsi legali, sia ai rispettivi Tribunali amministrativi regionali, sia al Tribunale di Strasburgo per i diritti dell’uomo. Resta però da chiedersi: perché i politici non riescono a comprendere da soli queste legittime richieste di riforma delle istituzioni per renderle più funzionali e meno costose? Perché questa chiusura, che alimenta nei cittadini un vero e proprio astio verso i propri governanti, visti più come nemici che come rappresentanti preposti al bene comune? L’auspicio è che i discorsi intorno ad un disegno di legge governativo, da mettere a punto entro l’estate, per ridurre i costi della politica (Assemblee elettive, Pubblica amministrazione, vero federalismo, che sinora ha creato solo costose sovrapposizioni) non rimangano vuote parole. È bene agire in fretta, perché l’onda che viene dal basso non è semplicemente un fatto emotivo. Non conviene a nessuno arrivare ad un punto di rottura.

AUTORE: Pasquale Caracciolo