Il diritto alla felicità?

Nei giorni scorsi, fra tante notizie di primo piano, ne è stata pubblicata una secondaria: un gruppo di opinione propone di inserire nella Costituzione italiana anche il “diritto alla felicità”; come nella Costituzione americana, dicono loro. Può sembrare una stravaganza: in questo mondo nessuno può promettere la felicità garantita per legge.

Ma viviamo in un Paese nel quale due anni fa, dal balcone di Palazzo Chigi, il vicepresidente del Consiglio annunciò che aveva abolito la povertà. Quindi certe proposte vanno prese sul serio. Dunque: non è vero che la Costituzione degli Stati Uniti parli del “diritto alla felicità”. La Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776 dice invece che fra i diritti fondamentali assegnati direttamente dal Creatore a ogni creatura umana, oltre alla vita e alla libertà, c’è anche “la ricerca della felicità”, che è un concetto ben diverso: lo Stato non ha il potere di garantirti la felicità, però ha il dovere di metterti in condizione di ricercarla. È un pensiero bellissimo. Peccato che i degni gentiluomini che nel 1776 lo scrivevano fossero tutti ricchi proprietari di schiavi che lavoravano nelle loro piantagioni; che quelli avessero gli stessi diritti non gli passava nemmeno per l’anticamera del cervello.

Dovettero passare 90 anni perché la schiavitù venisse abolita ufficialmente; ma gli ex schiavi e i loro discendenti continuarono a essere discriminati anche legalmente. Nel 1955, in Alabama, Rosa Parks venne arrestata perché su un autobus pubblico aveva osato occupare un posto a sedere riservato ai bianchi. E non parliamo di quello che nel frattempo era accaduto a coloro che adesso chiamiamo i nativi americani, ma nei film western che mi deliziavano da ragazzino erano gli odiati pellirosse che giustamente facevano una brutta fine. Il Creatore, a quelli, il diritto alla ricerca della felicità non lo aveva dato? Vedete bene che è facile scrivere nelle Costituzioni alti princìpi e nobili parole, ma la realtà della vita non sempre, o quasi mai, vi corrisponde.

In politica si fa a gara a chi fa i proclami migliori, ma bisogna guardare, invece, a che cosa accade nella realtà e specialmente ai più disgraziati.