COVID-19. La testimonianza di Simone Biagioli

Simone Biagioli è il coordinatore dell’oratorio “San Giovanni Paolo II” delle parrocchie di Prepo, Ponte della Pietra e San Faustino (diocesi Perugia-Città della Pieve). Ha 42 anni, è sposato e ha tre figli: Anna, Marco e Celeste. Lo scorso gennaio ha contratto il Covid-19 che l’ha portato a un ricovero ospedaliero a causa di una polmonite bilaterale. La sua è una storia di rinascita.

“Il 27 gennaio saluto mia moglie Francesca e i miei figli Anna, Marco e Celeste, per compiere anch’io il pericoloso cammino aperto per me da un contagio covid inaspettato. Dopo un anno di lockdown e zone colorate, mascherine, igienizzanti, distanze, Dad, protocolli scritti per fare l’attività estiva (Grest) nell’oratorio in cui lavoro da quindici anni come coordinatore, il virus ha infatti raggiunto la nostra casa intorno all’Epifania, tramite il contagio di mio suocero, ricoverato da dicembre in ospedale per altre questioni.

In pochi giorni diventiamo quasi tutti positivi, tranne uno dei miei figli, che presterò alla scienza per studi sperimentali: tre tamponi negativi di seguito.

Praticamente, un alieno! Nel mio ‘borsone’ porto anche le malattie pregresse: diabete e ipertensione. Mi ricoverano in Pronto Soccorso – Obi. Manca il respiro. La situazione precipita in due giorni. Intravedo la soglia della rianimazione, che non sarò chiamato a oltrepassare, come invece accadrà per altri miei compagni di stanza, alcuni dei quali purtroppo non ce l’hanno fatta. Fondamentale è il casco Cpap, che genera un piccolo miglioramento e motiva i medici a trasferirmi con fiducia al reparto di Pneumologia, presso l’Unità di Terapia Intensiva Respiratoria (Utir) diretta dal dottor Stefano Baglioni. Ho due certezze: da grande non farò mai l’astronauta; inoltre, sento che in quella notte sto ‘ufficialmente’ riaprendo quel reparto. Dopo di me ascendono al piano altri tre pazienti. La terapia ad alto flusso e la ventilazione ancora non bastano. Passo all’unità intensiva con ventilatori più potenti. Cerco di capire come respirare, ora assecondando la macchina ora guidandola.

Un passo al giorno, svezzato dall’ossigeno, le cose migliorano. ‘Esco’ dall’ombra oscura della polmonite bilaterale: i polmoni tornano a scambiarsi ossigeno con maggiore elasticità. E ora mi trovo qui a raccontare questo cammino.

Il telefono è la porta virtuale che fa entrare in corsia un popolo numeroso che, in preghiera costante, chiede la mia guarigione: famiglie, bambini, anziani, consacrati, fratelli e sorelle carissimi, persone sconosciute che pregano per me dall’Italia e dall’estero, raccomandandosi a Santi ‘conclamati’ e Santi della porta accanto. Non sono solo! Sento la forza della preghiera che mi raggiunge e mi fa camminare e collaborare con le terapie per guarire. Un passo alla volta.

Tale forza raggiunge questi luoghi di particolare dolore e fatica, per chi soffre e per chi s’offre a curare. Siamo nel periodo peggiore che la nostra amata regione ha conosciuto dall’inizio della pandemia.

Medici, infermieri, operatori socio sanitari, sono in trincea affrontando un’impresa più che ‘complicata’: tuta sigillata, tre paia di guanti, calzascarpe, due mascherine sovrapposte, occhiali e visiera. Mi basta dire loro ‘grazie’ per il semplice fatto di entrare nella mia stanza con questa pesante armatura, che lascia intercettare solo gli occhi, sempre generosi di quell’attenzione su cui la relazione di cura è fondata. 

Nei giorni della prova, i nostri occhi sono diventati reciprocamente “complici” del percorso di guarigione. Con la voce e i gesti, competenti e professionali, la mia carne ferita è stata ascoltata, toccata, guidata, incoraggiata e consolata.

Come instancabili cercatori d’oro, ho visto tutti tuffarsi instancabilmente nei rivoli martoriati e poco generosi delle mie arterie, per setacciare quelle pepite preziose e parlanti delle EGA
(emogas analisi), dove, purtroppo, non sempre tutto brilla e la fatica della “cerca” a volte
riduce l’orizzonte dell’entusiasmo più fiducioso.

Ma, quando quel “rotolo di pergamena” ha iniziato a cantare un’incoraggiante melodia di
speranza, improvvisamente è diventato un vessillo di vittoria da sventolare in aria.
Prendendo in prestito le parole del messaggio di Papa Francesco per la XXIX
Giornata Mondiale del Malato (11 febbraio 2021): “la vicinanza è come un balsamo” che ci dà sostegno e consolazione.

Questa prossimità di cui non sono certo l’unico testimone, l’ho vissuta come una “vicinanza
comunitaria”, dove ciascuno ha messo se stesso in gioco e in dono per me, per raggiungere il medesimo obiettivo: farsi carico della mia fragilità e guarirmi. Quale straordinario impegno!

Ben oltre il contratto, gli orari, lo “standard”, le questioni organizzative.
Nella stessa trincea, un servizio prezioso è quello Pastorale Ospedaliero curato dalla
Comunità dei Frati Minori: fra Luigi e i suoi confratelli, sono i nuovi “Padre Cristoforo” di
questo lazzaretto contemporaneo. Non mi hanno fatto mancare mai la misericordia, la
Parola di Dio e Gesù Eucarestia, il “farmaco” dei Dieci lebbrosi del Vangelo.

I miei genitori mi hanno educato, fin da piccolissimo, a dire “grazie” sia a Dio che agli
uomini. Per questo, ringraziare questi operatori di quotidiano e ordinario eroismo, è stato
per me naturalmente necessario, anche per ogni doloroso prelievo (dopo i primi venti ho
perso il conto). Nell’Oratorio “San Giovanni Paolo II” delle parrocchie di Prepo, Ponte della
Pietra e San Faustino, dove vivo insieme alla mia famiglia, abbiamo un motto storico, un
grido di pace adatto a ogni tempo di battaglia, per tutti, credenti e non: ‘A fossi a greppi…
purché si vada!’

I fossi e i greppi (i lettori autoctoni sanno cosa sono) rappresentano le fatiche della vita: i
luoghi impervi che stanno sul nostro cammino verso la meta; gli inciampi che ci fanno
cadere, le paure ma anche le difficoltà, le incomprensioni, ecc.
Il motto significa che, nonostante tutte le difficoltà incontrate nel cammino della vita,
l’importante è non perdere la speranza e camminare insieme verso la meta. Per noi
dell’oratorio questa frase è decisamente più di un motto stampato sulla ‘maglia ufficiale’: è
un’esperienza di vita che ci è stata fatta respirare con amore fin da piccoli, ‘a pieni polmoni’
e che, spero anche con la mia vicenda, sia arrivata tra le corsie e le stanze, come un soffio
leggero di ossigeno puro.

È necessario che, attorno a questo esercito in battaglia, sia permanentemente
accampata una milizia stabile e “in piedi” che, come Sentinelle con le mani alzate verso Dio, circondi sempre questa “città nella città” con un “muro di fuoco” di compassione, sostegno e amore. E voi, siete già arruolati?”

Simone Biagioli