Agricoltura biologica, questa sconosciuta

Il settore, in Umbria, stenta a decollare nonostante l'impegno profuso. Perché?

La Regione mette la mano sul fuoco che, per il biologico in Umbria, ha fatto sempre il possibile e, in qualche caso, anche l’impossibile. Il vicepresidente Carlo Liviantoni (sue anche le Politiche agricole e agro-alimentari) garantisce di aver costruito più di una “corsia preferenziale” per gli agricoltori biologici: bandi per le imprese che trasformano e commercializzano il biologico, credito agevolato con le banche dell’Umbria, progettazioni di campagne promozionali per l’Umbria dei metodi e dei prodotti dell’agricoltura biologica. “Basta leggere – dice Liviantoni – le cifre dei contribuiti dati alle associazioni dei coltivatori biologici per avviare e mantenere il loro lavoro, dal 2001 al 2006: in totale, siamo ben oltre i 470 mila euro”. Senza contare che il precedente Piano di sviluppo rurale, quello 2000-2006, aveva già previsto 32 milioni di euro di fondi per il biologico, di cui ne restano ancora da erogare 16 milioni (i “trascinamenti”) alle 1.024 aziende biologiche dell’Umbria. Però, niente. Lo stesso Liviantoni è consapevole che il biologico, parte decisiva delle misure agroambientali anche nel Programma di sviluppo rurale 2007-2013, ancora non decolla. Specie per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti. Biologico: poco commercializzato. Non andando troppo bene gli affari “bio”, sembra permanere una certa diffidenza tra i vertici della Regione e gli agricoltori biologici. “Il loro elemento di debolezza è la loro incapacità di organizzarsi e di vendere: un fenomeno negativo che riguarda l’intera Italia e, quindi, anche l’Umbria”, afferma la direttrice regionale del settore Agricoltura e foreste, Ernesta Maria Ranieri. Che aggiunge: “I dati dicono che sono davvero pochi i prodotti biologici umbri commercializzabili, anche perché oltre il 50 per cento della terra potenzialmente destinata a questa produzione continua ad essere tenuta a foraggere e a prato”. E Liviantoni aggiunge: “La forte difficoltà di aggregazione delle aziende che fanno biologico in Umbria è legata soprattutto alle loro esigue dimensioni”.

Troppo “piccoli”, insomma. Vizioli (Aiab): “Il giusto modello di sviluppo rurale? Non nel nuovo Psr”. Vincenzo Vizioli è il presidente regionale dell’Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab). “Vogliamo sederci al tavolo con Liviantoni – sostiene – per parlare di sviluppo rurale, assistenza tecnica, sementi, promozione del settore organico e di bandi. Nel nuovo Programma di sviluppo rurale approvato dalla Regione Umbria – continua – i nostri politici non hanno fatto scelte, aprendo a tutte le misure possibili in agricoltura. Non hanno assolutamente chiaro qual è il giusto modello di sviluppo rurale per l’Umbria, e così ce li hanno messi tutti: ma come può convivere l’agricoltura biologica, che non usa pesticidi, con la coltivazione del tabacco, che invece ne abusa?”.

Un Cordero di Montezemolo tra i campi

Il suo cognome rimanda alla Ferrari, alla Fiat e, oggi, anche alla Confindustria. Dalla madre ha ereditato la passione per la campagna e la terra. Ci regala subito un ricordo di libertà: “Da bambino mi riempivo le tasche di ranocchie, quando ero qui in Umbria”. Cordero di Montezemolo è un cognome ingombrante. Però nella campagna di Agello, in provincia di Perugia, si perde fra gli altri. Gregorio Cordero di Montezemolo, infatti, cugino cinquantasettenne di secondo grado del famoso Luca ‘ un bisnonno in comune con lui “fa le salsine dal farro e dai pomodori e l’olio di semi di girasole. Prodotti rigorosamente biologici, che vende a Perugia in piazza Piccinino, a Roma in Campo de’ Fiori, a Bologna e anche all’estero”. L’ Umbria “dal cuore verde” – afferma – è solo una trovata pubblicitaria, visto che questa regione non ha nessuna propensione per l’ambiente e, soprattutto, per l’agricoltura biologica. In molti autogrill d’Italia si possono acquistare gli alimenti biologici della zona, ma non in Umbria. Nel Chianti i ristoratori vendono l’olio e il vino delle aziende biologiche locali, a testimoniare il legame fra gli alimenti e il territorio. L’umbro – continua -, a differenza del toscano, si è vergognato delle sue origini contadine. I francesi sono fieri di chiamarsi paysan, così come i britannici sono contenti di lavorare come farmers.

Ma noi italiani ci siamo inventati la parola “imprenditori agricoli”: non era meglio farci conoscere come contadini? È più genuino o no?. I suoi antenati sono senatori del Regno, beati, canonici, avvocati. E Gregorio Cordero ecc. ha scelto di fare il contadino. Perché? “Mi sembra un mondo più vero, più bello” risponde. Poi dice: “Avrei potuto lavorare in banca o in fabbrica, forse alla Fiat, in città, dietro una scrivania. Ma, facendo il contadino – conclude – comprendo meglio la vita, nel bene e nel male. Nella terra c’è anche la visione cristiana del ‘prendere la propria croce’, ogni giorno. E Confucio diceva che ‘il lavoro è la casa di Dio’. A me, qui ad Agello, il lavoro non manca mai”.

AUTORE: Paolo Giovannelli