La sindrome dello sconfitto

L’ho chiamato così, nel colloquio con un amico, quel particolare stato d’animo che mi ha aggredito una manciata di giorni or sono: ‘La sindrome dello sconfitto’. Causata da che cosa? Più che di ’cause’ bisognerebbe parlare di ‘occasioni’, e subito si sgonfia l’annunciata drammaticità di quella domanda (‘Causata da che cosa?’). Una volta che hai appurato che la Fenice di Venezia prese fuoco perché le travi erano tarlate, i tendaggi non erano in tessuto antincendio, gli estintori avevano già dato pessima prova di sé durante l’incendio di Troia, ecc.: ebbene, quale interesse vuoi che conservi la domanda sulla marca del cerino che ha ‘causato’ l’incendio? Cerco di spiegarmi, amico lettore. La psicosi del reduce si aggira da anni nei meandri della mia (modesta) massa grigia. Ho creduto a lungo di combattere una guerra sacrosanta con in mano un bazooka, successivamente ho dovuto supporre che si trattasse solo di un fucile anteguerra, che poi s’è rivelato essere una colt alla Jessy James, arrugginita come il mito del suo titolare, e infine ha assunto la sua vera identità: uno schioppetto di sambuco caricato a palle di stoppa. Fuor di metafora. L’approccio della mia adesione al Vangelo è sempre e soltanto dall’angolazione dell’emarginazione. Definitivo, da quando per la prima volta presi parte ad un’assemblea della Comunità di Capodarco, nel paesino omonimo, il 30 giugno 1970. Ero in crisi. Forse avrei presto abbandonato baracca e burattini. Il Concilio era finito da cinque anni e mi sembrava che la Chiesa avesse già innestato la marcia indietro. Forse avrei lasciato anche io il sacerdozio, come diversi dei miei amici migliori. Forse avrei usato la distinzione fra Chiesa istituzionale e Chiesa del Vangelo come Sergej Bubka con l’asta di bambù: per andare oltre i 6 metri del ridicolo assoluto. Ma quei ragazzi! In quel 30 giugno 1970. Erano più di cento, gravemente handicappati la gran parte, però non parlavano di handicap, ma di emarginazione: l’handicap è quello che è, l’emarginazione è la conseguenza dell’handicap, resa ‘fatale’ dalla nostra superficialità. Non pativano sulla loro condizione. Non intendevano organizzare feste dell’amicizia, giornate del malato col ciuccio in bocca, o simili ‘imprese’. Discutevano di giustizia sociale. Discutevano di Chiesa dei poveri. Impegnatissimi. Presuntuosi, maleducati anche. Ma vivi. La partecipazione a quell’assemblea fu la prima delle cause remote della mia sindrome odierna. Ne uscii convinto che un handicappato è sempre e comunque, automaticamente, un liberatore, un promotore di giustizia e di solidarietà, un Cristiano che all’amore di Dio può conferire (come nessun altro può fare) quell’altra faccia, l’amore per il prossimo, che autentica la prima e a sua volta ne viene autenticata. Automaticamente. Non era vero. Fu duro prenderne coscienza. Durissimo.

AUTORE: Angelo M. Fanucci