Il Vangelo di domenica scorsa passava dalla pesca al pascolo, con due immagini che traducevano in linguaggio figurato i compiti dell’apostolo: pescatore di uomini e pastore della Chiesa. Il Vangelo di oggi ci ripropone la figura del pastore che Gesù utilizza per caratterizzare se stesso e la sua attività. Aveva detto a Pietro: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore”; era sottinteso che gli agnelli erano e restavano Suoi, perché lui è e resta il vero pastore della Chiesa. Oggi, Giornata delle vocazioni di speciale consacrazione, viene ribadito questo concetto: tutti coloro che sono chiamati a svolgere la funzione di pastori nella Chiesa devono conformarsi a Cristo, avere le sue stesse qualità e imitare il suo comportamento. Il cap. 10 di Giovanni torna più volte sull’immagine simbolica di Gesù pastore.
Sembra che il tema sia stato trattato prevalentemente nei giorni che vanno dalla festa della Capanne (Sukkot: Gv 7,2.37) alla festa delle Encenie (Hannukkah: 10,22), tra settembre e dicembre, quando Gesù si è trattenne forse a Gerusalemme quasi tre mesi. Le feroci polemiche che hanno acceso i suoi nemici contro di lui si affiancano all’episodio del perdono dell’adultera e al miracolo del cieco nato (Gv 8,1-9,41). Fa parte di quelle polemiche anche il brano del Vangelo di oggi, ambientato nella festa della Dedicazione. Questa festa era stata istituita per commemorare la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme da parte di Giuda Maccabeo nel 164 a.C. Il tempio era stato profanato dai siriani di Antioco IV Epifanie che vi avevano eretto la statua di Giove Olimpio con il culto relativo (l'”abominio della desolazione” di Daniele 9,27).
Dopo tre anni di persecuzione religiosa e di guerriglia, finalmente i siriani erano stati sconfitti e Giuda volle purificare il Tempio e ristabilire il culto ebraico tradizionale. Da allora ogni anno, nel mese di dicembre, si celebrava la festa della Dedicazione. Gesù partecipava a quelle festa e raccoglieva il suo gruppo di discepoli e di ascoltatori sotto il portico di Salomone, situato sul lato orientale del Tempio, al riparo dei venti freddi che spiravano dal deserto orientale. Qui lo abbordarono i capi giudei: “Fino a quando terrai l’animo nostro nell’incertezza? Se tu sei il Messia, diccelo apertamente” (Gv 10,24).
La stessa domanda gli rivolgerà il sommo sacerdote al momento del processo per poterlo condannare a morte (Lc 22,67). Qui Gesù non risponde direttamente alla domanda, perché la parola “Messia” era equivoca: aveva allora una prevalente connotazione politico-militare che Gesù non intendeva avallare. Egli non era il Messia che loro aspettavano. Afferma perciò che è perfettamente inutile rispondere a quella domanda, perché i suoi nemici sono prevenuti nei suoi riguardi e non crederanno alla sue parole. Essi non sono pecore sue, sono figli del diavolo, nemico della verità (8,43). Il discorso si riallaccia a quello precedente sul Buon Pastore (10,1-21), questa volta però l’attenzione è attirata maggiormente sulle pecore. Gesù aveva definito se stesso il Buon Pastore, o meglio il “Bel Pastore”: in greco l’aggettivo kalòs, qui utilizzato, significa infatti “bello”, cioè il pastore ideale, il modello dei pastori. A suo confronto gli altri pastori, quelli che guidano ora il popolo di Dio, sono ladri, banditi, mercenari, lupi che rubano e sbranano le pecore. Perciò non sono stati donati a Gesù dal Padre.
Pecore sue sono solo quelle che il Padre gli ha donato, perché, per ascoltare Gesù, accettare di essere guidati da lui e appartenere alla sua comunità, è necessario essere tali. Gesù aveva chiara coscienza che i suoi seguaci fossero dono prezioso di Dio, da custodire gelosamente. Nella preghiera dell’ultima cena dice al Padre: “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che tu mi hai donato dal mondo. Erano tuoi e li hai donati a me ed essi osservano la tua parola” (Gv 17,6-7). Ogni vocazione nasce dall’amore di Dio, che l’ha programmata dall’eternità. Dio ci ha previsti, scelti e attesi con amore. Nessuno di noi è nato a caso. Apparteniamo a lui, tutti. Egli ha un disegno preciso su ciascuno si di noi, e saremo felici solo se lo realizziamo nella nostra vita. Su ciascuno di noi vigila il Bel Pastore, siamo guidati amorevolmente da lui, che ci consce e ci chiama per nome, e che per la nostra salvezza ha dato la sua vita (Gv 10,3ss.). Non siamo massa indistinta di anonimi seguaci, siamo persone amate una ad una, come se fossimo gli unici al mondo.
Da questa certezza nasce l’assicurazione preziosa contenuta nel Vangelo di oggi: “Io dono loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano”. Siamo cose care e preziose agli occhi di Gesù e del Padre. Essi agiscono insieme perché sono una cosa sola, uniti nella stessa natura divina comune al Padre e al Figlio. La mano di Gesù è la mano stessa di Dio, forte e tenera insieme. Siamo in buone mani, non siamo in balìa degli eventi oscuri e assurdi del caso. Cantiamo spesso il Salmo 23: “Il Signore è il mio pastore non manco di nulla… Se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me”. Dovrebbe essere una delle fonti sicure della nostra speranza, insieme al grido di gioia che Paolo lancia nella Lettera ai Romani: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori in forza di Colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rom 8,35-39). Temo che la speranza sia ancora una virtù poco annunciata nella Chiesa e troppo ignorata e trascurata dai credenti.