Non capita spesso sentirsi chiamare beati in un mondo di gente depressa e scontenta anche dietro la facciata di un comportamento spigliato, di un’apparente serenità. È più facile compatire che congratularsi. Anche perché la gelosia avvelena spesso i rapporti anche fra gli amici più intimi. Sentiamo a volte dire: “beato lui!” o “beati loro!” ma sempre con una punta di invidia o di desiderio. La beatitudine per lo più è bandita dal nostro vocabolario e la guardiamo con diffidenza, perché la scambiamo con l’infantilismo e l’incoscienza dei menomati psichici. Così il nostro panorama umano è composto di facce pensose, preoccupate, a volte truci, quasi sempre scontente.
Suona quindi strano sentire Gesù chiamare beati proprio coloro che noi definiamo disgraziati. E siccome non era uno sprovveduto o un idealista, dobbiamo capire perché. Luca colloca l’episodio ai piedi della montagna, da dove Gesù è appena disceso. Si era recato lassù a pregare e vi aveva passato tutta la notte. Al mattino chiamò i suoi discepoli e tra loro ne scelse dodici, che chiamò apostoli. Discese poi dal monte in un luogo pianeggiante con questo gruppo ristretto di seguaci, che restarono a lui più vicini mentre egli cominciò ad esporre uno dei suoi discorsi più importanti, quello che viene chiamato il Discorso della montagna. Gli ascoltatori sono disposti a cerchi concentrici: più vicini i dodici, poi i discepoli, ai margini la folla numerosa. Sembra di essere tornati ai piedi del monte Sinai, dove Dio parla al suo popolo appena liberato per mezzo di Mosè (Es 20,1-20). Dio rende le sue orme visibili e ripetitive per indicare la continuità del suo passaggio.
La differenza con il discorso di Mosè ai piedi del Sinai, dove vengono enunciati i dieci comandamenti, sta nel fatto che qui il discorso di Gesù rassomiglia ad un canto, piuttosto che al freddo enunciato di un codice. Il suo è un lieto messaggio, un annuncio di felicità, non una legge. Le sue non sono proibizioni, sono proposte di felicità, costituiscono la realizzazione piena di sé e del proprio vivere. Perciò le prime parole che pronuncia sono quattro beatitudini. È un invito alla gioia. Nella lingua aramaica di Gesù la parola “beatitudine” è indeclinabile come un invito o un esclamazione, essa suonava: “ashère” e aveva una pluralità di significati: “felicità”, “coraggio!”, “in piedi!”, “in cammino!”.
André Chouraqui, un notissimo intellettuale ebreo, accademico di Francia, che ha tradotto in francese dai testi originali tutta la Bibbia, compreso il Nuovo Testamento, traduce la frase “beati voi poveri con ‘in marcia, voi umili”. Si tratta di un’esortazione rivolta a chi è depresso, abbattuto, disorientato, stanco, come lo è chi vive nella povertà estrema, nella fame, nel dolore e nella persecuzione. Gesù invita tutti questi poveri ad un recupero di dignità, ad un cammino di speranza. Dio ama i suoi poveri con amore di preferenza, perche più bisognosi di assistenza e di aiuto. Con la sua potenza sovrana e con il suo amore sconfinato è accanto a loro, non li abbandonerà mai a se stessi. La loro serenità e la loro gioia nasce da questa certezza di fede. Finora i poveri, i disgraziati, i sofferenti, i malati, erano considerati gente abbandonata da Dio, quindi maledetta. Gesù capovolge questa convinzione: il Dio cristiano è il Dio dei poveri, dei malati, degli scoraggiati, dei sofferenti.
Egli non può rimanere indifferente davanti all’ingiustizia, alle prepotenze, all’emarginazione che subiscono; mette a disposizione loro tutto la sua potenza salvifica, prende le loro difese, si fa giudice delle ingiustizie da loro subite e assicura loro la vita eterna, quella descritta nella parabola del povero Lazzaro (16,18-21). Con Gesù è arrivato il tempo della loro consolazione. I poveri nella lingua di Gesù venivano chiamati ‘anawim. Il vocabolo indicava colui che non ha nulla o ben poco per vivere, colui che non conta, che non ha aiuti e appoggi umani, che è sfruttato, oppresso, emarginato. Egli trova la sua sicurezza solo in Dio, perciò è anche la persona buona, umile e pia che prega e ha fede robusta. “Povera” in tal senso si definisce Maria nel canto del Magnificat (1,48).
Da qui nasce la gioia e la serenità dei credenti che vivono nelle condizioni di cui sopra. Sono felici perche Dio è vicino a loro e se ne prende cura amorosa. Le beatitudini sono inconcepibili senza questa profonda fede in Dio vicino, amorevole e misericordioso. Luca enuncia le beatitudini su alcune situazioni di vita per lo più non scelte dai protagonisti, Matteo allarga l’orizzonte delle beatitudini anche alle scelte di vita. Per lui le beatitudini sono anche un impegno di vita liberamente adottato: riguardano lo spirito di povertà e di distacco, l’afflizione per i mali del mondo, la mitezza nei rapporti umani, la ricerca appassionata della giustizia, l’atteggiamento di misericordia, la purezza del cuore, la costruzione della pace. Secondo il Vangelo Gesù ha enunciato diverse beatitudini (come quella della fede e dell’ascolto); Matteo ha raccolto nel Discorso della montagna ben otto di esse, a differenza di Luca che ne ha selezionate solo quattro.
Il nostro evangelista ha affiancato alla beatitudini anche quattro ‘guai’ in parallelo antitetico. Non sono maledizioni; il Dio di Gesù non maledice nessuno. Sa solo benedire. Sono ammonizioni e avvertimenti che nascono dalle preoccupazioni di chi ama e vuole la salvezza di tutti. È come se dicesse: “State attenti, voi che siete ricchi, voi che siete sazi, voi che vivete dandovi alla pazza gioia senza prendere sul serio la vita, voi che siete alla ricerca delle gratifiche umane. Correte il rischio di escludere Dio dalla vita, di idolatrare i vostri soldi e le vostre consolazioni, di essere sazi del vostro benessere, e di rincorrere una felicità illusoria”. Dio non si preoccupa solo dei poveri, ma anche dei ricchi, perciò li ammonisce a non ritenersi autosufficienti, basandosi solo sui beni che possiedono, sulla salute che godono, sulla gioia effimera del godimento che rincorrono. Forse oggi, per noi che ascoltiamo il Vangelo, tale ammonimento è più urgente della beatitudine.