Tollere come “condonare” o tollere come “farsi carico di”.
Qual è il senso giusto da attribuire all’offerta che Gesù ha fatto a Dio al posto nostro, quando ha deciso di tollere i nostri peccati?
Qui a Gubbio, come in tante altre comunità d’antica tradizione, la processione del Venerdì santo parte al tramonto. Parte da Porta Metauro e attraversa tutta la città. Ore di cammino dietro a Lui, che stamane, deposto dalla croce, è stato adagiato sul catafalco. Le donne del quartiere di San Martino gli hanno unto le piaghe con olio vergine e profumi di prima qualità.
Circa 200 uomini di ogni classe sociale, divisi in due cori, stanno per intonare il Miserere in latino, a due voci, quattro note traboccanti di passione che ci arrivano dal cuore del grande Medioevo e attraversano tutta la città; un coro dietro a Lui, l’altro dietro a sua Madre. Decine e decine sono quelli che, incappucciati per il dolore e la vergogna, reggono il baldacchino o portano i simboli della Passione.
Eccolo lì, il volto scavato, il corpo lacerato, le braccia larghe, eccolo lì: schiacciato da un peso invisibile ma immenso, il peso che Lui ha scelto di tollere, di caricare su se stesso, il peso dei nostri peccati. Dio mio, come l’ha ridotto il male del mondo! Era quello il costo della satisfactio vicaria che lui offriva a Dio al posto nostro.
Mi dissero, più di 50 anni fa, i miei docenti al Laterano che la logica dell’offesa e la logica della riparazione dell’offesa sono profondamente diverse. Lo spessore dell’offesa va valutato sulla persona che viene offesa: quando è Dio che viene offeso, la gravità del fatto è inaudita. L’efficacia della riparazione dell’offesa è invece legata alla statura morale di colui che la chiede. E dunque, pensare che un uomo possa riparare adeguatamente l’offesa che lui e i suoi hanno fatto a Dio, è da pazzi. Solo un Dio può offrire a Dio una riparazione adeguata.
Gesù, vero uomo e vero Dio, solo Lui poteva offrire l’azione riparatrice adeguata (satis-factio, satis facere). E l’ha fatto offrendo al Padre il suo sangue. Il sangue nella sua materialità era gradito al dio degli aztechi, la cui benevolenza ogni giorno a mezzogiorno ne faceva congrua provvista, succhiandolo da due ventenni inermi.
Ma per noi cristiani il sangue è un segno: il sangue di Gesù è il segno della sofferenza e della morte dovute al fatto di essersi fatto carico dei nostri peccati.
Qui la grande domanda: perché quella sofferenza, perché quella morte?