La lezione che viene da Wuhan

di Pier Giorgio Lignani

Wuhan è una grande città cinese: undici milioni di abitanti con l’area metropolitana. Dunque, una delle città più grandi del mondo. E stando a quello che ne abbiamo visto in fotografia, è anche molto moderna, costruita senza risparmio. Ma fino a pochi giorni fa, pochi fra noi l’avevano sentita nominare.

Ora siamo tutti in pensiero per l’epidemia che si è manifestata in quel remoto angolo di mondo, e abbiamo scoperto che poi tanto remoto non è: ci sono studenti di Wuhan nelle università italiane, mentre nelle università di Wuhan ci sono studenti italiani e docenti italiani. Compreso un noto cattedratico che insegna Diritto romano; che a me, antico cultore della materia, pare una favola. Se poi si considera la Cina nel suo insieme, si scopre che i turisti cinesi che vengono in Italia sono un milione e mezzo all’anno, forse più.

Studenti cinesi affollano i nostri Conservatori di musica e le nostre Accademie di belle arti (anche a Perugia). Più tutti gli immigrati che lavorano. Il va e vieni delle persone è continuo, per la gioia di albergatori, ristoratori e venditori di souvenir. Il traffico delle merci è ancora più intenso: importiamo dalla Cina prodotti per oltre 30 miliardi di euro l’anno, ne esportiamo per 13 miliardi (senza contare Hong Kong e Taiwan).

Quindi a viaggiare non sono solo i turisti e gli studenti, ma anche gli imprenditori e gli uomini di affari. Con queste premesse, che effetti può produrre sull’economia il blocco delle comunicazioni imposto dall’epidemia? Un mezzo disastro, se non finisce presto.

Insomma, abbiamo una volta di più la prova che il mondo è interconnesso, nel bene e nel male; che la globalizzazione è un prodotto irreversibile della storia; che chiudere le frontiere è, per un verso, impossibile e, per un altro, inutile; e che nella misura in cui si riesce a farlo – quando è proprio necessario – si paga caro, molto caro, più di quanto saremmo disposti ad accettare.

La nostalgia di un mondo fatto di nazioni separate, ciascuna chiusa nei propri confini e autosufficiente, è il sogno di un mondo che non è mai esistito.

Poiché la globalizzazione non si può abolire, bisogna studiare il modo di organizzarla politicamente per sfruttarne (tutti insieme) gli effetti positivi, ed eliminare quelli perversi.