di Daris Giancarlini
Mediazione non è cercare un punto d’equilibrio tra due punti estremi: in politica, è spesso un modo per andare avanti non risolvendo ma posticipando la soluzione del problema. Un vero ‘principe’ di questo tipo di mediazione, mirata soprattutto a restare in sella, si sta rivelando l’attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Si era presentato da capo del Governo Lega-cinquestelle, di derivazione grillina, come “avvocato del popolo” e come garante del cosiddetto ‘contratto’ fra i due partner della maggioranza. Figura risultata dalla scarsa consistenza politica, a fronte della straripante prevalenza mediatica dei due vice premier Salvini e Di Maio.
Poi, con la crisi innescata dal segretario leghista nell’estate scorsa, il premier ‘impalpabile’ si era eretto a censore delle esuberanze salviniane, fino a consolidarsi – anche agli occhi del Pd, nuovo alleato di governo dei 5s come successore di se stesso a capo di una maggioranza del tutto opposta a quella da lui stesso guidata per più di un anno.
Mediare, mediare e ancora mediare: la funzione del premier, che la Costituzione definisce “responsabile” della politica del Governo, in Giuseppe Conte ha trovato una vera sublimazione. Una mediazione che riguarda soprattutto i toni (più dei contenuti) del confronto tra quanti, dopo essere
stati acerrimi avversari prima delle elezioni, si trovano a condividere responsabilità di governo, mantenendo comunque riserve e punti di vista opposti rispetto al temporaneo alleato. Come dimostra il confronto sul progetto del ministro della Giustizia (Bonafede, M5s) che mira a cancellare la prescrizione.
La figura del Conte mediatore deriva soprattutto da una fase politica in cui, ancora in presenza di una legge elettorale parzialmente maggioritaria, lo storico bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra si è ritrovato con la ‘novità’ rappresentata da quel terzo imprevisto che sono i cinquestelle.
Un tripolarismo che, anche se con i grillini in calo evidente di consensi, sta facendo orientare gran parte della classe politica verso una (ennesima) legge elettorale, stavolta totalmente proporzionale. Un’evoluzione che, stando ai più attenti politologi, avrà come conseguenza principale quella dello sbriciolamento degli schieramenti, con i partiti impegnati a correre da soli.
Senza sbilanciarsi, prima del voto, sulle future alleanze di governo, che si faranno in Parlamento. D’altronde, la Lega di Salvini prima delle elezioni del marzo 2018 aveva fatto fronte comune con Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma poi era andata da sola al governo con i cinquestelle. Riposizionandosi non soltanto, secondo il nuovo credo salviniano, come forza non più limitata al Nord ma sempre più nazionale e nazionalista, ma anche e soprattutto come polo d’attrazione principale, se non unico, del centrodestra.
Sul fronte opposto, il Pd di Zingaretti non sembra ancora avere le idee chiare su come approcciare il proprio riposizionamento in vista della nuova fase politica. Il segretario parla di allargamento e di apertura a nuovi soggetti e movimenti, ma non si comprende se si tratterà di alleanze con soggetti alla propria sinistra o di assorbire voti in uscita da altre formazioni.
A partire da quei cinquestelle in cui la confusione regna sovrana, in attesa dell’annunciata riorganizzazione interna. Pare che il mediatore Conte guardi a questi giri di valzer con una certa preoccupazione, specie dopo gli attacchi di Matteo Renzi. Ma forse in futuro ci sarà ancora maggior necessità di un mediatore. Che magari interpreti questo ruolo in modo meno conservativo dello status quo.