Dalla periferia, la Salvezza

La terza domenica del tempo ordinario segna il definitivo passaggio dalla profezia sul Regno alla realizzazione del Regno. Un tempo nuovo inizia: “Inizio della buona notizia (Evangelo) che è Gesù Cristo (Mc 1,1), questa buona novella può essere finalmente ascoltata dalla bocca stessa di Colui che è la Parola fatta carne.

Questo passo parallelo dell’Evangelista Marco può fare da introduzione a questa domenica: Gesù Cristo è il Regno (Lc 17,21), questa è la vera buona notizia. Dopo il battesimo di Gesù e il compimento della missione profetica di Giovanni, “l’avvento” lascia il posto alla presenza della Parola incarnata che si fa Parola salvifica e sanante. Con L’uscita di scena gioiosa di Giovanni, amico dello sposo, (Gv 3,29-30) si apre la strada alla gioia del “popolo che abitava nelle tenebre”, la luce che è Cristo viene ad illuminare coloro che “abitavano in regione di morte” (Mt 4,16).

È interessante cogliere l’indicazione temporale con cui inizia il Vangelo di questa settimana: “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea”(Mt 4,12), perché sembra esprimere un certo atteggiamento rinunciatario da parte di Gesù motivato dal dolore per l’amico, ma in realtà sta germogliando il “Virgulto del tronco di Iesse” (Is 11,1) che spunta dalla dalla morte del chicco di grano, (Gv 12,24) macerato dalla testimonianza alla Verità.

Non si può tralasciare nemmeno il riferimento geografico: il suo ritorno in Galilea, a Nazareth; non per sostare ma per ripartire ancora verso nord, verso la sua nuova dimora: Cafarnao. L’orizzonte della salvezza si sposta dai luoghi celebrati e cantati dai sacri testi, Gerusalemme e Betlemme, alla “via del mare, al di là del Giordano” (Mt 4,15), perché si adempisse la profezia di Isaia descritta al capitolo 9, un testo che abbiamo ascoltato per intero nella notte di Natale.

La via del mare è illuminata dalla luce del Messia, un territorio sconosciuto, considerato al tempo di Gesù bisognoso di purificazione, perché “infestato” dalla promiscuità con altri popoli.  La terra di Zabulon e di Neftali, soggetta a continue invasioni e passaggio di popoli perché terra di confine, di periferia, non solo geograficamente, ma anche lontana dal cuore della fede d’Israele.

A Nazareth, luogo “malfamato” e insignificante, come descritto da Natanaele (Gv 1,46) non giungono le melodie dei salmi cantati nel tempio di Gerusalemme, tantomeno raggiungono la città di Cafarnao, la cui melodia si compone delle voci del “compra e vendi” del commercio. Eppure Gesù sceglie come luogo delle sua residenza la città sul Mare di Galilea, anche se il suo domicilio risulterà sconosciuto a motivo del suo continuo peregrinare, senza la certezze di dove posare il capo (Lc 9,58).

Un territorio che ci ricorda  Isaia “il Signore ha umiliato nel passato” (Is 8,23) ma ora renderà glorioso. Non sarà la liturgia del tempio di Gerusalemme a santificare quella terra, ma la presenza stessa di Colui che perennemente celebra il culto in Spirito e Verità.

Non sarà nemmeno la memoria di antichi re come Davide di Betlemme, figure del Messia a garantire la traditio delle fede d’Israele, ma il “contaminarsi” con i peccatori e i pagani del Figlio di Dio, che porterà a compimento la storia della salvezza preannunciata dai profeti. La terra dei gentili diviene il luogo privilegiato da Dio, non solo per l’inizio dell’annuncio della buona notizia della venuta del Messia, ma lo diventa anche per la missione della Chiesa.

Il Signore risorto attende i suoi in Galilea per essere inviati in tutto il mondo; il luogo della “ferialità” diviene il luogo della rivelazione del mistero della salvezza, dove la fede rende possibile i miracoli, dove la fede è accolta da cuori non incrostati da “superfetazioni teologiche” che rischiano di separare Dio dall’uomo. È qui, nella ferialità, luogo della vita quotidiana, che la risposta di fede all’incontro con il risorto, si trasforma nell’eccomi delle scelte della vita.

Nelle “incursioni” del Risorto nella vita quotidiana dell’uomo, si celebra l’incontro d’amore di chi si è fatto dono e quando trova un cuore assetato d’amore e di giustizia, questo incontro genera un dinamismo che spinge al dono di sé. Solo un cuore semplice, non sopraffatto dagli egoismi, del potere, dei soldi, della sessualità smodata, consente di giocare la propria libertà investendola nel protagonismo della vita.

Se l’alveo della risposta ad una chiamata all’amore che si fa dono, è il luogo della vita quotidiana e il contesto della ferialità, allora l’appello vocazionale non riguarda solo il singolo, ma le nostre stesse comunità affinché diventino grembo fecondo di umanità.

Un importante insegnamento per le nostre comunità forse troppo assetate di preti e di culto, ma meno disposte a lasciarsi convertire da ciò che lo Spirito sta dicendo alle Chiese. È una comunità credente e credibile che è capace di generare vocazioni all’amore e quindi anche al sacerdozio, non è un prete in più che che può cambiare il contesto.

Don Andrea Rossi