Il Mistero supera le attese

Il cammino liturgico dell’Avvento, con questa terza domenica, subisce un’accelerazione tematica verso il Natale. Il testo della colletta all’inizio della messa ci ricorda la prossimità della celebrazione “del grande mistero della salvezza” e l’antifona, quindi, invita l’assemblea a rallegrarsi perché “il Signore è vicino”.

Il testo che ci invita a gioire contagia anche il colore liturgico dell’abito del celebrante, con la possibilità di vestire la casula rosacea della domenica chiamata Gaudete.

Il clima ormai natalizio è invece tradotto nella liturgia, in particolare nel testo evangelico, con molti interrogativi. Il primo è posto sulla bocca di Giovanni Battista: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3), altri sulla bocca di Gesù, che per ben tre volte scuote la folla chiedendo spiegazioni: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? (Mt 11,7-9).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA
Dal libro del profeta Isaia 35,1-6a.8a 10

SALMO RESPONSORIALE
Salmo 145 (146)

SECONDA LETTURA
Dalla Lettera di Giacomo 5,7-10

VANGELO
Dal Vangelo secondo Matteo 11,2-11

Una situazione paradossale: mentre tutto intorno a noi ci dice la certezza del Natale (quale Natale?), la liturgia ci costringe a riflettere su Chi stiamo aspettando, su cosa stiamo aspettando, e quindi sulla qualità dell’attesa.

I personaggi biblici di queste domeniche, Maria e Giovanni Battista, incarnano quanto la Parola ci propone: l’attesa, la mitezza, la pazienza (Gc 5,7-8), la piccolezza, perfino il dubbio. Sì, anche il dubbio è foriero di certezza se si accetta la sfida di una ricerca; sì, anche il dubbio è un elemento della fede, che esso cerca, e la trova in una relazione confidenziale che non ha timore di chiedere ed è paziente nell’attendere una riposta.

Sa attendere come il contadino che, dopo aver rimosso la certezza del raccolto dell’anno precedente, accetta la sfida del nuovo anno: rimuovere la terra, seminare, concimare, innaffiare e attendere… (Gc 5,7).

Nonostante il lungo cammino, tracciato dalle certezze confermate, la fede del contadino, la fede del Battista, la fede di Maria – la nostra fede, aggiungerei -, la fede dei Magi, la fede degli apostoli, non è mai data per acquisita una volta per tutte. Per rimanere fedeli è necessario accettare il rischio di cercare attraverso i segni, alcune volte ambigui, che la Provvidenza disvela sul nostro cammino.

È strana la risposta che riceve Giovanni attraverso i sui discepoli. Non un’affermazione, ma una profezia a cui rimandare, una profezia da decifrare (Is 35,5), che solo l’intima relazione con la “Parola” consente di leggere come risposta; e solo l’intima relazione con Lui consente di entrare dentro quella Parola che si è fatta carne.

Qui scorgiamo quell’intimità amicale tra Gesù e Giovanni. Un legame che rende superflua la risposta esplicita, perché gli amici trovano le certezze nelle confidenze, e la confidenza rende superfluo l’esplicito, che “costringe”, rispetto a un “implicito” che invece apre a una profondità che sa di eterno.

Lo “sposo” e l’“amico dello sposo”, incontratisi, per mezzo dello Spirito, nell’esultanza delle madri, rinnovano un dialogo amicale a distanza, confermandosi vicendevolmente nelle loro identità. Giovanni comprende che colui che ha annunciato è Colui che deve venire, è colui che ha indicato al fiume Giordano dopo il battesimo: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).

Giovanni dal “Golgota” della sua prigione attesta la sua ultima testimonianza alla verità. Lui scompare per fare strada a Colui che è la Via, si lascia illuminare totalmente dalla Luce che rende superflua la lampada; come vero amico dello sposo, lascia la scena allo Sposo. Questo diminuire, che ha l’apparenza della morte, non è accompagnato dal “rito funebre” per il fallimento di una vita, ma dall’esultanza del compimento, che trasforma in speranza ciò che la disperazione aveva soggiogato (Is 35,15).

Ora Giovanni scopre ciò che aveva atteso, ma, soprattutto, scopre che ciò che attendeva ha superato le sue aspettative. La sua morte diventa un inno alla vita, da spendere senza nulla trattenere, nemmeno le sue “certezze” sulla fede, perché la fede non si lascia costringere nemmeno dalle “sante convinzioni”.

Una bella sfida anche per noi. Giovanni al termine della sua vita può pronunciare il suo nunc dimittis: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola” (Lc 2,29), i suoi occhi hanno veramente contemplato la salvezza. Questo appaga il senso di una vita, la cui gioia non dipende dalla durata ma dalla pienezza con cui si vive, costruita sull’“eccomi” trasformante, pronunciato come risposta a quella Parola che si è fatta carne.

Don Andrea Rossi