Per il corrente anno la celebrazione della festa di Cristo Re è accompagnata dalla lettura del brano di Giovanni sul primo incontro tra Gesù e Pilato. Si tratta del primo confronto, perché questo Vangelo registra anche un secondo colloquio tra i due, dopo la flagellazione del Nazareno. Senza perder tempo, Pilato passa subito alla questione cruciale, il punto che gli interessa: “Tu sei il re dei Giudei?”. Per il prefetto romano, rappresentante del potere imperiale, quest’espressione significa ovviamente una preoccupazione circa il governo dei suoi territori: la paura di una sommossa, soprattutto a Pasqua, avrebbe potuto destabilizzare l’ordine e la pax romana. Ma, come già commentava I. De La Potterie (La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, Paoline 1988), l’espressione “re dei giudei” che anche Pilato utilizza può essere compresa, nel nostro brano, almeno in due altri modi diversi da quello che egli probabilmente intende.
“Per i giudei, il titolo ‘re dei giudei’ significa naturalmente tutt’altra cosa. Egli è il re messia atteso fin dall’epoca di Davide per il tempo della salvezza, investito di una missione sia religiosa sia politico-nazionale. ‘Re’ ha qui un significato terreno e storico, ma con un profondo contenuto teologico. Nella storia, ambedue sono strettamente legati e impiegati l’uno per l’altro; i due significati giocano insieme nell’accusa contro Gesù”. Particolarmente significativo per la comprensione della festa di oggi è però il senso che le parole devono aver avuto per Gesù: attraverso di lui questo titolo rivela un nuovo significato, in particolare nel Vangelo secondo Giovanni. Gesù accetta il titolo, rispondendo “Io sono re” ma allo stesso tempo nega il significato che Pilato vuole attribuirgli, per parlare invece della sua speciale regalità.
Gesù si rifiuta di incarnare un messianismo terreno, come quello evocato già nelle tentazioni nel deserto, in particolare nella versione lucana della prova: “Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: ‘Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo'” (Lc 4,5-7). “Tutto il mondo appartiene a Satana, che è disposto a dare a Gesù il potere su tutti i regni della terra. Ma Gesù, fin dall’inizio della sua vita pubblica, rifiuta radicalmente di fondare un regno terreno” (De La Potterie). Questa interpretazione invece ha spesso avuto fortuna, magari nella raffigurazione di un Gesù “rivoluzionario” o politico. Pensavamo di essercene liberati, invece ancora oggi è in voga.
In un libro pubblicato quest’anno da Piemme – una volta editrice di orientamento cattolico, ora controllata da Mondadori – La dinastia di Gesù, dell’archeologo americano James D. Tabor, si leggono nella seconda di copertina affermazioni che somigliano alle fantasie de Il Codice da Vinci, ma che hanno la pretesa di essere storiche: “Oltre a Gesù, Maria ha avuto altri sei figli. Una vera e propria dinastia, chiamata a regnare su Israele e a restaurare il Regno di Dio. Della dinastia di Gesù la Chiesa non ha mai voluto parlare per preservare il dogma della verginità di Maria e per evitare di riconoscere una verità sconcertante: Gesù non è venuto per annunciare un Regno di Dio inteso come vita eterna ultraterrena, ma è stato il leader di un movimento rivoluzionario che avrebbe dovuto trasformare il mondo e instaurare il vero Regno di Dio sulla terra”.
Se la regalità di Cristo deve però essere compresa in altro modo, questo non deve portarci all’idea contrapposta, ovvero all’immaginare un Messia estraniato dal mondo; il nostro testo non si lascia leggere in tal modo. In greco, le parole di Gesù al v. 36 del Vangelo di oggi, sono, alla lettera: “Il mio regno non è da questo mondo”. Quanta differenza rispetto agli apocrifi, tanto in voga oggi: “In certi scritti gnostici ispirati dal quarto vangelo, per esempio gli Atti di Pilato, viene introdotta in questo testo la piccola modificazione seguente: “Il mio regno non è in questo mondo”, il che ha evidentemente un significato del tutto differente e porta a una separazione tra il mondo e il regno di Dio”. Le parole di Gesù invece significano che “la regalità di Cristo non si fonda sui poteri di questo mondo e non è minimamente ispirata a questi. È una sovranità nel mondo, ma che si realizza in maniera diversa dal potere terreno e attinge la sua ispirazione da un’altra fonte” (De La Potterie).
Le nostre riflessioni hanno inevitabilmente una ricaduta sul piano ecclesiologico. “La tentazione del potere temporale – continua De La Lotterie – ha perdurato nel corso della storia della Chiesa. Essa non è certamente nella linea del vangelo, il che non significa che tutte le istituzioni debbano scomparire e che la Chiesa debba restare esclusivamente carismatica. No, ma deve essere in ogni caso una Chiesa povera e in spirito di servizio. Il Cristo non è re alla maniera dei dominatori della terra, e la sua Chiesa non è una potenza terrena”. La quotidiana fatica dei credenti, e quella della Chiesa, è di comprendere la regalità di Gesù e viverla come Egli per primo l’ha vissuta.