La condanna a morte di Saddam Hussein irrompe sulla tormentata vicenda dell’Iraq, dopo un mese di ulteriore escalation delle perdite americane e delle violenze. Molto diverse le reazioni politiche, tra cui spicca quella dell’Unione europea, che ha ribadito il suo rifiuto, sempre e comunque, della pena di morte. Il processo al sanguinario dittatore – di cui immediatamente si apre la fase di appello – al di là della personale vicenda del raìs, è comunque un emblema, rimanda al grande tema geo-strategico delle due guerre del Golfo, con i due loro opposti esiti, l’assetto cioè della regione e il ruolo delle potenze occidentali, a partire dagli Stati Uniti; per i quali si aprono diverse prospettive dopo i risultati elettorali di ieri, 7 novembre, che esprimono disapprovazione alla linea Bush. Ma l’eliminazione fisica del dittatore, se la sentenza di primo grado sarà confermata in appello e poi eseguita materialmente, paradossalmente sembra enfatizzare la drammatica difficoltà di costruire quel dopo-Saddam che avrebbe dovuto essere la prima preoccupazione dei ‘vincitori’ e pare successivamente allontanarsi, fino alla prospettiva di una vera e propria disgregazione dell’Iraq in tre entità territoriali, ma anche e soprattutto culturali, religiose ed etnico-politiche. Come queste prospettive istituzionali si intreccino con la realtà del terrorismo, le ambizioni degli attori regionali (in particolare l’Iran) e le ‘strategie d’uscita’ americane (e inglesi) resta però ben difficile da definire. E con tutta probabilità non c’è da aspettarsi che le imminenti elezioni americane di medio termine apportino risposte significative nel breve periodo. Tanto più che la vicenda irachena rimanda al puzzle della Terra Santa, percorsa in questi giorni da una nuova ondata di violenze. Ma la soluzione è una sola e ben chiara: quella di un ‘negoziato diretto, serio e concreto’, come ha ribadito il Papa. Ci sono tempi, margini, per un negoziato che abbia come obiettivo il reciproco, definitivo riconoscimento e di conseguenza l’innesco di una prospettiva di pace e di sviluppo? La speranza è sempre pari allo scetticismo, anche se l’evoluzione politica interna all’Autorità palestinese, con il profilarsi di un governo di coalizione, potrebbe aprire nuovi spiragli. In realtà, in situazioni di conflitto radicato, ci vuole più forza per fare la pace che per fare la guerra. Dunque leadership deboli o scarsamente legittimate trovano nella semplice acquiescenza alla situazione di conflitto una via certamente più semplice. Ma in prospettiva la via del negoziato ha alternative? Soprattutto se si guarda agli interessi della popolazione, come non manca di ricordare il Papa. Anzi, in prospettiva anche la soluzione al groviglio iracheno non può non passare attraverso una rete di negoziati. Per voltare finalmente pagina.
Iraq. È tempo di voltare pagina
AUTORE:
Francesco Bonini