Adesso che passa la maggior parte della sue giornate seduta in poltrona, Marisa, mia madre, 84 anni compiuti da poco, rovista spesso nelle vecchie foto di famiglia. Le guarda con tenerezza, come se quei volti amici (molti di persone che non ci sono più) le trasmettessero l’energia necessaria per andare avanti.
In quelle foto, le più vecchie in bianco e nero, ci sono gite, scampagnate, comunioni, matrimoni, battesimi. Ci sono bambini, anziani, e giovani di belle speranze. C’è la vita che ricomincia dopo una guerra disastrosa e una miseria dilagante. Ci sono brillantina e sandali, giacche doppiopetto e motociclette, brindisi con vino bianco e grandi tavolate. Di gente che aveva conosciuto la fame, fino a mangiare – se c’erano – pane e cipolla per una settimana intera.
Che aveva rigirato più e più volte i colli delle camicie, e fatto risuolare fino all’estremo scarpe e ciabatte. Tutto questo emanano quelle vecchie foto in bianco e nero, insieme a una parola che forse abbiamo dimenticato: dignità. Perché nessuno di quei volti ha negli occhi il rancore o la rabbia che promanano da tanti selfie che oggi intasano i social. Nessuno di loro, dopo la guerra, voleva voltarsi indietro e odiare. Ma solo guardare avanti e costruire qualcosa per i figli e i nipoti. E la maggior parte di loro, dei nostri nonni e genitori, sono riusciti nell’intento di migliorare la vita delle nuove generazioni.
Non sembra stia succedendo altrettanto.
Daris Giancarlini