di Daris Giancarlini
Non ci sono, mai, motivazioni accettabili per un omicidio: ma uccidere qualcuno “perché era troppo felice”, beh, questo davvero è quanto di più disumano si possa sentire.
Eppure Said Machaquat, 27 anni, cittadino italiano di origini marocchine, ha motivato così l’uccisione a coltellate del 33enne Stefano Leo, commesso in un negozio di abbigliamento a Torino.
“Il racconto dell’omicidio e il movente fanno venire freddo alla schiena, tanto sono sconvolgenti e banali” ha detto il procuratore torinese che ha raccolto la confessione dell’assassino di Stefano. Il brivido di cui parla il magistrato è quello dettato dal fatto che allora, se si può arrivare a sgozzare una persona perché ride e dimostra di essere felice, tutti possiamo e dobbiamo dubitare di tutti.
L’assassino in questione ha avuto una vita complicata, con una separazione dalla moglie italiana, un figlio piccolo che non può vedere e la mancanza di un lavoro. Ma, come lui, tanti hanno avuto e hanno questi problemi, senza farne un motivo per odiare la felicità degli altri. “Volevo un nome, una ragione. Non questa. Sono senza fiato” ha detto il papà di Stefano.
Senza fiato, davvero, siamo tutti, di fronte all’idea che la felicità possa essere vista come una colpa.