Sono passati cento anni dal lancio dell’appello “ai liberi e forti” con cui don Sturzo diede il via all’esperienza del Partito popolare italiano. Era infatti il 18 gennaio 1919 quando quell’innovativo manifesto politico fu diffuso da Roma. Ed è un testo che, dopo un secolo, presenta ancora oggi spunti di straordinaria attualità.
Ne parliamo con il presidente dell’Istituto Luigi Sturzo, Nicola Antonetti, che è anche ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università di Parma.
Che cosa ha significato l’appello di don Sturzo per la storia dell’impegno politico dei cattolici italiani?
“Il manifesto ‘ai liberi e forti’ e più in generale l’avvio dell’esperienza del Partito popolare segnano l’inizio dell’impegno dei cattolici italiani nelle istituzioni apicali dello Stato. Una svolta importantissima. Fino a quel momento infatti, almeno formalmente, i cattolici erano del tutto estranei alla vita politica nazionale, potevano operare soltanto a livello amministrativo.
Ma questo per Sturzo limitava fortemente la possibilità di incidere nella trasformazione democratica dello Stato, che per lui era un obiettivo fondamentale. Mentre il pensiero prevalente in ambito cattolico aveva ancora una visione armonica della società, Sturzo aveva percepito che c’era un ‘dinamismo della lotta’ ineliminabile, e che questo doveva essere governato”.
Nell’appello si parla della necessità di un “reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali”. Sembra una riflessione di questi mesi…
“Sturzo è sempre stato molto attento alle vicende internazionali, per tutta la vita. Quel riferimento molto lucido contenuto nell’appello va compreso anche alla luce di un fatto contingente: si era all’indomani della fine della guerra, i cattolici uscivano da un’immagine di neutralismo e l’idea di un ‘giusto equilibrio’ costituiva una risposta convincente al ritorno dei nazionalismi.
Sturzo aveva colto che con i nazionalismi si sarebbe ricaduti nuovamente nella guerra, e che il problema vero era quello di costruire un nuovo equilibrio tra gli Stati. Di qui la positiva valutazione del piano dell’allora presidente americano Wilson e la sottolineatura del ruolo della Società delle nazioni. Non solo. Già nel ’29 Sturzo parlava degli Stati Uniti d’Europa come di un obiettivo a cui tendere con tenacia e pazienza”.
L’appello auspica “uno Stato veramente popolare”. Sturzo ha chiamato “popolare” anche il partito da lui fondato. Ma che cosa intendeva con questo termine che oggi è circondato da molte ambiguità?
“La scelta del nome del partito risponde principalmente alla volontà di distaccarsi dall’esperienza della prima Democrazia cristiana, quella di Murri. Con il termine ‘popolare’ Sturzo voleva semplicemente esprimere un antagonismo rispetto alle oligarchie borghesi che avevano dominato la politica italiana fino a quel momento.
Non a caso la prima grande operazione di Sturzo fu quella di riuscire a far approvare una legge elettorale proporzionale, con l’obiettivo non di eliminare, ma di costringere all’opposizione i partiti espressione di quelle oligarchie.
Il popolarismo non ha nulla a che vedere con quello che oggi siamo soliti chiamare populismo. Sturzo è sempre stato molto critico verso un’idea di popolo come nebulosa indistinta. Non dimentichiamo che di lì a poco l’avvento del fascismo sarebbe avvenuto ‘in nome del popolo’ e avrebbe portato all’eliminazione dei partiti”.
A un giovane che oggi prendesse in mano l’appello “ai liberi e forti”e, più in generale, si accostasse al pensiero di Sturzo, quale aspetto suggerirebbe di valorizzare?
“Ne vedo soprattutto due. In primo luogo il richiamo alla moralità della politica, che è centrale in tutta la riflessione e l’esperienza di Sturzo. Il secondo riguarda il piano istituzionale, e in particolare il sistema della rappresentanza come momento di sintesi tra lo Stato e la società, essenziale per la vita democratica. Il Parlamento deve poter svolgere pienamente questa funzione. Se il suo ruolo viene vanificato sia da parte dell’esecutivo, sia da visioni di tipo populista, è la stessa democrazia che decade”.
Stefano De Martis