Ciminiere trasformate in siti archeologici

In Umbria esistono più di 170 aree diventate simbolo dell'industria dei decenni passati

Sono 173, ad oggi, i siti di archeologia industriale schedati dalla Regione dell’Umbria, 128 dei quali concentrati nella Provincia di Perugia. La parte rimanente fa parte del cosiddetto polo industriale ternano, con un articolarsi di strutture, infrastrutture, impianti che va dalla Valnerina alla cascata delle Marmore, fino a Orte. Nell’insieme un numero di siti considerevole se paragonato alla ridotta estensione territoriale della nostra regione, costituita per lo più da piccole e medie imprese. Un patrimonio culturale importante che conserva memoria di un passato industriale, parte del quale oggi dismesso o destinato ad altri usi, se non addirittura abbattuto. ‘L’interesse per questi siti industriali prima in Italia, e poi in Umbria – spiega Renato Covino, direttore dell’istituto per la cultura e la storia d’impresa ‘Franco Momigliano’ (Icsim) di Terni, professore di storia contemporanea Università di Perugia, all’attivo diverse pubblicazioni sull’archeologia industriale – cominciò a manifestarsi alla fine degli anni ’70 quando le aree industriali vennero abbandonate per il trasferimento o per la chiusura delle imprese. Un interesse che si sviluppò sull’onda di un processo iniziato ancora prima in Inghilterra, nei primi anni Sessanta del secolo scorso, dove l’archeologia industriale fece i suoi primi passi, quando si sentì l’esigenza di salvaguardare, per le future generazioni, un patrimonio di valore costituito da edifici, macchinari, strumenti e documenti. Così, anche nel nostro Paese, mentre prima si chiudeva e si tentava di far nascere nuove imprese, in seguito si cercò di ricostruire, per recuperare anche tutti quei processi identitari che esistevano intorno al manufatto industriale. Processi che, se recuperati, danno un senso alla vita delle persone che vivono ancora in quelle aree’. Quali sono in Umbria le aree di interesse per l’archeologia industriale? ‘Il polo ternano è certamente tra le infrastrutture una delle più importanti d’Italia – prosegue Covino – con i suoi settori legati alla siderurgia, alla meccanica, alla chimica. Ma ‘archeologia industriale’ non sono solo i grossi contenitori, le grandi industrie. Per esempio ci sono reti produttive che sembrano residui del passato ma continuano a funzionare, come i mulini, per i quali ci sono diversi progetti di recupero. Ci sono gli impianti minerari che sono stati dismessi e bisogna pensare a come preservarne la memoria: ad esempio Morgnano. C’è poi tutta la questione del laterizio che interessa l’area di Marsciano, dove vi lavora la maggiore impresa del laterizio in Italia, la Fbm (Fornaci Brizziarelli Marsciano) e dove è stato creato un Museo del laterizio e recuperate delle antiche fornaci. A pochi chilometri di distanza c’è un centro di produzione di cotto a mano che solo dieci anni fa sembrava finito, quello di Castel Viscardo, oggi pienamente funzionante. La stessa cosa vale per il tabacco. A San Giustino c’è un museo che dovrebbero cominciare a far funzionare a pieno regime, creando un polo museale intorno al tabacco, che comprenda non solo il ciclo produttivo, che già c’è, ma anche tutto quello che c’è d’immateriale intorno al ciclo produttivo, con l’idea di farne un polo di vendita per un territorio che non produrrà più tabacco o che ne produrrà sempre di meno’. Qual è il criterio per cui si sceglie di recuperare o di distruggere un sito industriale? ‘Si recupera, in genere, perché abbattere questi siti costerebbe troppo: allora li si fa diventare contenitori di qualità, tipo imprese immateriali, strutture culturali o sociali. In altri casi, invece, il recupero di un’area dismessa si scontra con interessi economici: l’interesse per l’uso del suolo, come area fabbricabile, è spesso talmente elevato che si preferisce abbattere gli edifici. Prendiamo Perugia e Terni: a Perugia, dove un tempo c’era la Perugina, è stato costruito il centro direzionale – commerciale di Fontivegge. Probabilmente c’era il bisogno spasmodico di costruire doppi centri e in quel caso si è ritenuto che il nuovo convenisse di più rispetto al vecchio. Inoltre l’area non era molto estesa e non si trovava in una zona centrale della città. Una situazione come quella dell’area industriale di Terni, dove si parla di centinaia di ettari, i problemi invece sono di due tipi: c’era il rischio di costruire una città senza controllo, mentre ad esempio a Terni tutto lo sforzo fatto è stato quello di costruire con un piano regolatore che avesse alcune rigidità. In secondo luogo si tratta di aree strategiche, centrali. Quindi è stata fatta la scelta di acquisire e trasformare, mettendoci anche iniziative nuove. Il risultato, come sempre, è discutibile’. Cosa intende? ‘Alla Bosco è stato creato un centro multimediale che non ha dato tutti i frutti che si sperava. A Papigno ci hanno messo gli studi cinematografici. Adesso hanno il grosso problema del polo Siri, che è sovradimensionato rispetto alle aziende che ci sono, per questo si è scelto di recuperare e di non distruggere. Vi hanno ricavato edilizia abitativa e un centro commerciale, ma il grosso del vecchio stabilimento, che tra l’altro era l’unico vincolato a Terni, è rimasto a destinazione culturale museale’.

AUTORE: Manuela Acito