Gesù e la sua famiglia

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Giulio Michelini XIV Domenica del tempo ordinario - anno B

Quando leggiamo i Vangeli e pensiamo al rapporto tra Gesù e la sua famiglia, ci vengono subito in mente alcuni episodi che dicono il profondo affetto che li legava: pensiamo all’apprensione per il bambino “perduto” nel Tempio, e ritrovato dai suoi genitori – come racconta Luca; pensiamo a Giuseppe, il padre putativo di Gesù, che premurosamente lo protegge da Erode che vuole ucciderlo – secondo il racconto di Matteo; oppure alla madre di Gesù che, a Cana, e poi sotto la croce, si trova sempre vicino al figlio – secondo la tradizione del quarto Vangelo. Ma se invece ci soffermiamo sul Vangelo più antico, quello di Marco, la situazione si presenta in modo diverso, e in tensione con quelle appena presentate.

Già nel capitolo terzo del suo libro, Marco racconta un episodio che ci permette anche di comprendere il Vangelo di oggi. Gesù, scrive l’evangelista, “entrò in una casa e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: ‘È fuori di sé'” (Mc 3,20-21). Significative sono le parole di Gesù in risposta all’arrivo dei suoi: “Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: ‘Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre'” (Mc 3,34-35).

Comunque si cerchi di attenuare questi enunciati, magari con una legittima lettura spirituale, non possiamo però negare il tentativo da parte di Gesù di smarcarsi dalla sua famiglia. “Sua madre e i suoi fratelli non costituiscono più la comunità basilare in cui egli vive. Con i legami di sangue interrotti, il posto della famiglia è ora occupato da quanti siedono attorno a lui e [‘] da coloro che rispondono positivamente a quanto egli loro dice sul regno di Dio” (B. Van Iersel, Marco). In questo modo Gesù risponde perfettamente alla sua vocazione di Figlio prediletto del Padre. Ricordiamo che nel giorno del suo battesimo, Gesù sente la voce che proprio così lo chiama, e che – se passiamo ora al Vangelo di Luca – già lo aveva chiamato facendogli dire che doveva stare “nelle cose del Padre suo” (cfr. Lc 2,49), nel Tempio, a studiare la Legge, per poterla poi interpretare ed annunciare a tutti.

Ma Gesù risponde anche alla sua vocazione umana. Come ogni uomo, per obbedire alla Legge deve lasciare suo padre e sua madre, secondo quanto scritto nel Genesi. Lì si parla di una vocazione per il matrimonio, quella di Gesù è ovviamente una chiamata per il Regno dei cieli; ma se i termini cambiano, la condizione previa è la stessa. “L’uomo deve lasciare suo padre e sua madre (Gen 2,24). In quanto essere di relazione, l’uomo si umanizza se sa rompere, staccarsi da ciò che è simile. Così supera la relazione filiale, per cui dipendeva dai genitori fin dalla nascita, e aderisce a sua moglie. In questo modo passa dal legame filiale alla relazione coniugale. La capacità di sposarsi sta in questo abbandonare. Qui viene dato il motivo per cui l’uomo e la donna nel momento in cui si uniscono per formare una famiglia devono lasciare la famiglia d’origine. È necessario uno stacco netto con il proprio padre e la propria madre, per permettere all’uomo e alla donna di iniziare liberamente una nuova vita. In altre parole, il legame tra marito e moglie deve essere più forte del vincolo tra genitori e figli. Così si realizza il passaggio da uno stadio infantile a un livello adulto della vita. L’uomo giunge a un’autentica unione con la propria donna fino a costruire con lei una sola carne, quando lascia la casa dei genitori. La sessualità coniugale esige la rinuncia della protezione dei propri genitori” (F. Manns, Il matrimonio nella Bibbia, Dizionario di spiritualità biblico-patristica, Roma 2005).

Ecco allora che Gesù, a chi lo vuole seguire, potrà poi dire, ricco della sua esperienza: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Forse abbiamo spiegato perché Gesù afferma di non poter essere profeta tra i suoi. Scegliendo la propria strada, ciascuno ha un prezzo da pagare. Quello di Gesù – ma questo forse vale per molti o per tutti – è che i suoi parenti non lo capiscono più, perché egli non rientra nelle categorie nelle quali era stato inquadrato. Colui che doveva essere e rimanere, nelle loro attese, un carpentiere, ora sta facendo tutt’altro: il maestro e il profeta. Ma nessuno può esserlo nella sua patria, tra i suoi.

“Essi lo conoscono e non vogliono lasciarsi mettere in discussione. I nazaretani sono rappresentanti di tutti coloro che riducono la persona al suo stato civile e sociale, coloro che vogliono imprigionare il mistero sul piano della percezione. Essi sanno: la presunzione è il loro peccato” (M. Grilli). Gesù sperimenta così il suo secondo fallimento, dopo quello con i farisei e gli erodiani, che – come la sua gente – non lo ascoltano e decidono di toglierlo di mezzo (Mc 3,6). Ma non si scoraggia, e continua sulla strada che il Padre gli ha segnato, e che egli ha scelto liberamente. Lo troveremo subito dopo, superata la meraviglia dell’incredulità dei suoi (Mc 6,6), mentre affida il suo Vangelo ai Dodici.

AUTORE: Giulio Michelini