L’eredità intellettuale di Sergio Marchionne

di Daris Giancarlini

Ha citato spesso Schopenhauer, Sergio Marchionne, per distinguere fra talento (di coloro che raggiungono gli obiettivi che altri vedono ma non riescono a raggiungere) e genio (di quelli che vedono obiettivi ignoti ai più). Pochi dubbi su come si considerasse il manager italo-svizzeroamericano- canadese: se non altro per aver salvato la Fiat (portandone il fatturato da 2,8 miliardi di dollari a 60 in 14 anni), il tutto ‘facendo credere’ agli americani che i loro soldi servissero a rilanciare Chrysler. Se non un genio, un uomo intelligente e con una visione innovativa del futuro: nessuno avrebbe scommesso un centesimo, all’uscita della Nuova 500, che questa macchinetta tutta italiana avrebbe sfrecciato un giorno per le strade di New York a fianco delle supercaramericane.

Innovativo, Marchionne, anche nello smuovere il quadro consolidato delle relazioni industriali e sindacali in Italia, con Fiat che esce da Confindustria e disdice i contratti nazionali. Ma con lo stesso leader di Fca che si preoccupa delle condizioni dei suoi 230 mila dipendenti e di un ceto medio che, “se si impoverisce, chi comprerà più la Panda?”. Un genio, un innovatore, un visionario. Per lui, molto importante è stato sempre ricordare di essere figlio di un maresciallo dei carabinieri, dal quale aveva imparato e cercato di praticare valori come il senso del dovere, la disciplina, la dignità e l’onore. I giudizi su Marchionne vanno dall’esaltazione all’odio; comunque la si pensi, non averlo più a capo della Fiat è una perdita per tutti.