di Maria Rita Valli
Il quotidiano Avvenire lunedì scorso pubblica on line un articolo dal titolo “La bufala sui social. Le unghie di Josefa e quelle della Rete”. L’articolo tocca il tema migranti descrivendo le reazioni alla storia di Josefa, la donna che il 17 luglio è stata salvata dopo 48 ore passate in acqua aggrappata a un relitto con accanto una donna e un bambino morti. La foto di lei che viene tirata fuori dall’acqua dai volontari di Open Arms, con i suoi occhi sbarrati fissi nel nulla, è diventata in questi ultimi giorni l’immagine della tragedia dei migranti disposti a grandi sacrifici pur di arrivare in Europa, e disposti a morire in mare piuttosto che tornare in Libia. Sui social si sono scatenati gli haters (odiatori) che hanno preso a pretesto lo smalto sulle unghie (messo dalle volontarie per aiutarla a parlare). Ci sono poi anche le polemiche contro i volontari e le accuse di fake news (bugie) dall’una e dall’altra parte cui prendono parte anche esponenti del Governo.
È solo l’ultimo, degli episodi che fa emergere il clima di intolleranza e di odio che dall’anonimato o dallo schermo dei social network e del web si diffonde sempre più nelle relazioni quotidiane. Dinamiche che non risparmiano le comunità ecclesiali con “cattolici praticanti” che non hanno remore a condividere o finanche alimentare i commenti disprezzo e di odio. E questo preoccupa sempre più, tanto che il 19 luglio la Presidenza della Conferenza episcopale italiana ha diffuso una breve nota sulla questione dei migranti dal titolo eloquente: “Migranti, dalla paura all’accoglienza”. I vescovi parlano di “tragedia alla quale non ci è dato di assuefarci” ricordando che i migranti persone: “poveri, vittime di guerre e fame, di deserti e torture” e condannano fermamente chi alimenta e diffonde odio.
“Come Pastori della Chiesa – si legge nella nota pubblicata sul sito web della Cei – non pretendiamo di offrire soluzioni a buon mercato. Rispetto a quanto accade non intendiamo, però, né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi. Non possiamo lasciare che inquietudini e paure condizionino le nostre scelte, determinino le nostre risposte, alimentino un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto”. E concludono con parole chiare e forti: “Avvertiamo in maniera inequivocabile che la via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita. Ogni vita. A partire da quella più esposta, umiliata e calpestata”.
Qualcuno pensa che la Chiesa, e questo giornale, parla troppo di immigrati. Il punto è che la questione immigrati è come la febbre che segnala la malattia da curare dopo averne comprese le cause. Potremmo dire che la nostra società sta male, rischia la “volgarità” e l’“imbarbarimento” in tutte le sue espressioni sociali. Penso alla violenza degli uomini sulle donne, o anche agli studenti e ai genitori che picchiano gli insegnanti, solo per fare degli esempi.
Ma come accade quando si è malati il corpo spesso ha in sé le risorse per vincere la malattia e anche nella nostra società le risorse non mancano ma rischiano di sentirsi isolati, emarginati, perché il bene non fa rumore, non arringa le folle, non eccita gli animi, non cancella la responsabilità. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di riproporre la visione evangelica di una “civiltà dell’amore” (l’espressione è di Paolo VI) che sola può dare futuro e speranza all’umanità.