I due miracoli del Vangelo di oggi vengono raccontati con grande maestria da Marco, con una tecnica narrativa ad incastro: la storia di Giairo, un capo della sinagoga, si interrompe e si intreccia con quella della donna malata che tocca il mantello di Gesù, per poi riprendere subito dopo la conclusione dell’intermezzo. Ne ricaviamo alcune impressioni. La prima è che Gesù sia a disposizione della sua gente 24 ore su 24, non abbia mai un minuto per sé, la fretta di annunciare il Regno incombe su di lui. Ai discepoli che abbiamo lasciato increduli sulla barca, col mare in tempesta, e che pensavano Gesù si disinteressasse di loro (“Non ti importa che moriamo?”, Mc 4,38), Gesù risponde mostrando che ha cura di noi, sempre, di tutti, soprattutto “dei piccoli e dei poveri, degli ammalati e degli esclusi” (Prefazio alla V preghiera eucaristica C).
La seconda impressione è che questo sovrapporsi di storie sia un simbolo dell’imprevedibilità dell’esistenza. Anche per Gesù, come per noi, la vita è fatta di tanti eventi, di incontri, di volti con cui si viene a contatto. Gesù sulla sua strada ha a che fare con i suoi discepoli, con gli avversari ma soprattutto con chi ha bisogno di lui. Ma non ci deve sfuggire un dettaglio importante: la guarigione dell’emorroissa, e il miracolo successivo sulla fanciulla, avvengono tutti e due per contatto fisico. Ricordiamo che qualcosa di simile, nel Vangelo di Marco, è già avvenuto, nell’incontro tra Gesù e il lebbroso; anche in quell’occasione Marco ci dice che Gesù lo “toccò” (Mc 1,41).
Siamo davanti a situazioni che nel mondo ebraico in cui viveva Gesù erano considerate tabù, impure. Quella donna con emorragie, in particolare, secondo la Legge era esclusa dalla vita sociale: “La donna che ha un flusso di sangue per molti giorni, fuori del tempo delle regole, o che lo abbia più del normale sarà immonda per tutto il tempo del flusso” (Lv 15,25). Questa donna non solo non avrebbe potuto partecipare alla vita religiosa del suo tempo, ma non avrebbe dovuto toccare nessuno, perché l’avrebbe reso impuro.Concetto complesso e lontano da noi, quello dell’impurità. Nella simbolica ebraica antica, non significava qualcosa di “sporco”, o di “peccaminoso”, come lo intendiamo oggi, quanto piuttosto esprimeva la credenza che l’impurità avesse a che fare col sacro, ovvero col mistero di Dio. Leggendo Ez 44,23 in lingua originale, si può addirittura porre un’equazione di corrispondenza tra sacro e impuro, e tra profano e puro.
Le seguenti realtà, secondo il Levitico, rendono ‘impuri’: quelle relative al ciclo della vita e della morte (sangue del parto, emissione di liquido seminale, da una parte; cadaveri, dall’altra); quelle relative al sangue (dell’essere umano o degli animali, quello delle ferite o del ciclo mestruale); quelle delle malattie della pelle (la lebbra, che non corrisponde però a quella che intendiamo oggi con tale parola), quelle relative ai cibi “ibridi”, ovvero quelli risultanti da una mancanza di separazione. Ebbene, è chiaro che l’emissione di sangue è considerata impura non perché “sporca”, ma perché legata al mistero della vita, mistero che, in ultima analisi, può essere compreso nella mentalità biblica solo in rapporto a Dio, mistero inavvicinabile.
È Dio solo che dona i figli, e allora è impuro ciò che – come il sangue connesso alla mestruazione o al parto – porta nella sfera della vita e quindi di Dio. Ci sono, in altre parole, “alcune realtà che evocano il divino col suo potere vivificante e distruttivo, vicino e lontano, tangibile e inafferrabile” (Carmona), e tutte le leggi riguardanti la purità o l’impurità servono all’uomo perché ricordi che la vita appartiene, in ogni momento e in ogni circostanza, dall’inizio fino alla sua estinzione naturale, a Dio.
Gesù non ha paura di queste impurità. Non vuole trasgredire la Legge, ma si pone su un altro piano. Per lui non solo tutto è sacro, ma egli è talmente vicino a Dio che non ha alcun bisogno di schermi o tabù. Ecco perché in questa donna dev’esserci stata una tipica intelligenza femminile, un’intuizione che ha colto il segreto di Gesù. “La fede dell’emorroissa è grande: non è fiducia nella magia ma fede schietta: sa che la sua impurità legale a contatto con Gesù non è più impurità, ma santità; solo la fede permette di andare oltre di fronte a Gesù, uomo di Nazareth, e vedere in lui la fonte di salvezza; la donna sa che tutto ciò che Gesù toccava era santificato, tutto ciò che purificava era purificato (cfr. Nm 17,3)” (E. Bianchi).
I medici non erano riusciti a fare quanto invece compie Gesù. L’inciso marciano – che la donna “aveva sofferto molto per opera di molti medici”, e aveva anzi speso tutti i suoi soldi – è un importante segnale del testo. Da una parte ci dice che Gesù non guarisce facendosi pagare, e di questo esempio noi che siamo nella benedetta terra dell’Umbria abbiamo avuto una viva immagine in Vittorio Trancanelli, chirurgo di Perugia, proposto dai nostri Vescovi come testimone del Convegno ecclesiale di Verona: sappiamo infatti che visitava i pazienti gratuitamente. Dall’altra ci dice che Gesù è il più grande medico, non solo perché sa guarire veramente, ma lo fa pagandone un prezzo personale.
Quella forza che esce da lui indica la spogliazione che il Figlio dell’uomo ha voluto subire, per assumere su di sé tutti i peccati degli uomini, e con essi tutte le impurità. È infatti proprio Marco – ma di questo parleremo più avanti, quando commenteremo il cap. 7 del suo Vangelo – a dire che Gesù dichiara puri tutti gli alimenti, e quindi tutta la realtà, e considera come vera impurità, come ciò che mette in pericolo la vita dell’uomo, solo il peccato.