Gli Atti degli apostoli in questa sesta domenica del Tempo pasquale ci propongono di ascoltare ciò che è l’apice della missione apostolica dopo la risurrezione di Cristo: il battesimo amministrato ai pagani. Si tratta del momento in cui l’apostolo Pietro e il centurione Cornelio hanno rispettivamente una propria “visione” per cui da una parte Cornelio apprende che Pietro è l’uomo per mezzo del quale otterrà la salvezza per lui e per la sua famiglia, e dall’altra Pietro è sollecitato a non farsi scrupolo di accettare l’ospitalità da parte di un nongiudeo. Pietro matura così la consapevolezza che non solo era lecito frequentare i non-giudei, ma che essi potevano anche entrare a far parte della comunità dei credenti in Cristo benché non fossero stati precedentemente sottoposti alle prescrizioni della Torah di Mosè. Quindi, dopo aver annunciato Cristo a Cornelio e ai suoi familiari, “lo Spirito santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola” e Pietro “ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo”.
Conosciamo poi il seguito e quanto questo episodio, avvenuto alla presenza dei “fedeli circoncisi”, influì sulle decisioni del “concilio” di Gerusalemme che aprì definitivamente la possibilità di donare il battesimo anche ai pagani senza farli passare per il rito della circoncisione. Ecco allora che la comunità cresce e si sviluppa nella convivenza tra credenti provenienti dal giudaismo e credenti provenienti dal paganesimo. E il Salmo responsoriale a proposito ci invita ad affermare che il Signore “si è ricordato della sua fedeltà alla casa d’Israele” e che “tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. La consapevolezza dell’universalità del messaggio evangelico cresce quindi e si va approfondendo nella Chiesa nascente come anche si va potenziando il fonda-mento che lega i credenti tra loro: l’amore di Dio. La Parola di Dio ci fa infatti riflettere su quello che è il cuore della letteratura giovannea (I Lettera e Vangelo) nonché il segno distintivo dei seguaci di Cristo: l’amore di Dio e l’amore dei credenti tra loro. La pagina del Vangelo di Giovanni ci presenta una parte dell’ultimo discorso tenuto da Gesù agli apostoli, la parte che ruota tutta intorno al verbo amare e al sostantivo amore. Tuttavia, subito precisiamo che l’amore, secondo l’autore in questione, non riguarda tanto l’aspetto emozionale, quanto piuttosto l’atteggiamento di vita. Un’analisi “tecnica” ci può chiarificare. Si parla di un “ingranaggio” espansivo dell’amore del Padre per il Figlio, dell’amore del Figlio per i discepoli e dell’amore dei discepoli tra di loro. Esaminando i tempi verbali scopriamo che l’amore del Padre per il Figlio è espresso al presente e indica la continuità dell’azione, l’amore del Figlio per i discepoli è all’aoristo ed evidenzia la puntualità dell’azione, e quello dei credenti tra di loro al congiuntivo presente e manifesta l’invito a che l’azione dell’amarsi reciprocamente duri per sempre (proposizione esortativa). Il riferimento all’azione “puntuale” dell’amore di Gesù per i discepoli è il sacrificio sulla croce, questo per dire che Gesù lascerà ai suoi il modello di una vita concretamente offerta per amore. Non c’è possibilità alcuna quindi di fraintendere il messaggio. Gesù si rivolge ai suoi chiamandoli “amici” – non secondo la concezione gnostica (come da alcuni è stato interpretato) per cui gli “amici” sarebbero gli “eletti” che deterrebbero delle rivelazioni particolari, ma “amici” biblicamente parlando. Ad esempio, Abramo e Mosè sono definiti “amici” del Signore e hanno avuto esperienze intense e “originali” con Lui, ma non tanto per una questione intellettuale e/o conoscitiva, quanto per una finalità missionaria. Non che essi non abbiano avuto “rivelazioni”, perché sappiamo che le hanno ricevute, ma l’“amicizia” con il Signore ha fatto sì che non conservassero per sé le “rivelazioni”, ma le riferissero per costruire sulla base di esse – con la comunità – la storia della salvezza. Questa amicizia con il Signore è stata sottoposta anche a prove e, come Abramo e Mosè, anche gli “amici” di Gesù sono coinvolti in un legame intimo con il Signore (“rimanete nel mio amore”), con le conseguenze che questo comporterà e che di lì a poco si espliciteranno nelle persecuzioni contro i cristiani. Come il loro “amico” Gesù, anche gli apostoli giungeranno al grado sommo, fino cioè a sperimentare a loro volta che “non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
Nel Simposio Platone ha affermato che “solo quelli che amano desiderano morire per gli altri”, ma nel caso di Gesù il desiderio si è trasformato in realtà, una realtà che poi ha lasciato in eredità ai suoi amici. “Dare la vita” è un’espressione poco nota alla letteratura del tempo di Gesù, eppure san Giovanni la riporta come detta più volte dal Maestro. Anche se non alludendo solo alla vita fisica, nella tradizione biblica e rabbinica si trova un’espressione simile come “consegnare la vita” (masar nefes) o, leggendo con il libro dei Giudici (12,3), “rischiare la propria vita”. Del resto che cos’è l’amore, e l’amore cristiano, se non un esporsi, un rischiare la vita per il bene dell’altro? Allora “abbiamo bisogno della spinta dello Spirito per non essere paralizzati dalla paura e dal calcolo, per non abituarci a camminare soltanto entro confini sicuri” (Papa Francesco, Gaudete, n. 133).
LA PAROLA della Domenica
PRIMA LETTURA
Atti degli Apostoli 10, 25-26. 34-35. 44-48
SALMO RESPONSORIALE
Salmo 97
SECONDA LETTURA
Dalla I Lettera di Giovanni 4, 7-10
VANGELO
Vangelo di Giovanni 15, 9-17