Io sono la vite vera

“Davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”, preghiamo con il Salmo responsoriale Domenica V del Tempo pasquale, ricordando che alla realizzazione di questa profezia “universalistica” è stato preposto san Paolo con la sua instancabile attività missionaria. La I Lettura ci propone proprio la figura dell’“Apostolo delle genti”, ma in una circostanza particolare. Paolo ha infatti appena vissuto l’indimenticabile e determinante incontro con Gesù sulla via di Damasco e il suo desiderio è quello di unirsi alla comunità che ruota intorno agli apostoli, ma a causa del suo precedente “ruolo” di persecutore dei cristiani, viene decisamente rifiutato. Grazie alla mediazione di Barnaba, è poi riconosciuto come vero “convertito” ed ha modo di farsi accogliere, di stabilire la comunione con gli apostoli e con essi predicare “con coraggio nel nome del Signore”. Di nuovo però viene perseguitato perché, essendosi sviluppati due gruppi di credenti, l’uno costituito dai cristiani di lingua ebraica, l’altro di lingua greca, da quest’ultimo non è compreso a tal punto da dover fuggire per non essere ucciso. Paolo, che sicuramente intendeva stare a Gerusalemme dove aveva studiato e si era formato religiosamente e culturalmente, inizia la sua peregrinazione, prima a Tarso poi, attraverso i viaggi apostolici e quello della prigionia, giunge fino a Roma. Da una parte, Paolo avvia l’annuncio di Cristo ai pagani in quanto a ciò lo aveva incaricato Lui stesso sulla via verso Damasco, dall’altra la Chiesa, in Giudea, Galilea e Samaria, “si edificava e viveva nel timore del Signore e, consolata dallo Spirito santo, cresceva di numero”. E la I Lettera dell’autore Giovanni indica i pilastri su cui si fondava questa prima comunità dei credenti: la fede nel nome di Gesù e l’amore fraterno.

Relativamente al primo, sappiamo quanto fosse importante nella società semitica il “nome” perché in esso è espressa tutta quanta la persona, la sua indole e la sua missione. Credere nel nome di Gesù significa quindi accogliere la Sua persona caratterizzata dalla passione per gli esseri umani per cui l’Autore scrive, invitando i credenti ad amarsi gli uni gli altri, secondo il precetto che Gesù ha dato. Possiamo allora ritenere che l’amore fraterno sia l’elemento imprescindibile per “portare frutto” ed essere significativi così come suggerisce il messaggio della pagina del Vangelo secondo Giovanni. Gesù comincia questo discorso (che fa parte dei discorsi di “addio” tenuti nel corso dell’Ultima Cena) con la formula “Io sono” (ego eimì), formula che l’evangelista Giovanni riporta come pronunciata da Gesù ben 33 volte di cui 23 – ed è il nostro caso – con un predicato espresso (pane, porta, vita, …). Qui il termine di paragone è la “vite vera”. La vite, insieme all’ulivo e al fico, è una delle piante che caratterizza la vegetazione palestinese ed è frequentemente presente nella letteratura veterotestamentaria con tutta la sua enfasi simbolica. È infatti immagine di vita nuova in seguito al diluvio (Gen 9), è simbolo di prosperità della Terra in procinto di essere conquistata (Nm13), è metafora della sposa del Signore, cioè del popolo d’Israele (Ct, Sal, Gr, Os). Nella pagina giovannea, viene tuttavia cambiata la prospettiva perché la “vite” non è più la Comunità, ma Gesù che addita se stesso come “vite”. La vite è una sola pianta da cui diramano diversi tralci. Quindi pensiamo alla persona di Gesù, da cui promanano quanti accolgono la Sua Parola. E da qui in poi seguono nel testo verbi e sostantivi legati alla vita agricola, con la presenza del Padre, identificato con l’agricoltore, che garantisce la continuità tra la “vigna d’Israele” e la “vite” di Gesù. Le azioni attribuite all’Agricoltore sono relative alla prassi invernale, per cui vengono tagliati i tralci secchi, e a quella dello spuntare dei germogli in primavera estate, per cui si potano i tralci per non far disperdere la linfa vitale. Queste operazioni sono messe in atto al fine di “portar frutto”.

Approfondendo il brano, notiamo che, mentre inizialmente la potatura è opera del Padre, ai versetti successivi avviene come conseguenza del non rimanere uniti a Gesù. E ancora, mentre al tralcio sta la scelta se rimanere o no unito alla vite, ai discepoli di Gesù l’essere uniti a Lui è condizione per “portare frutto”, essere cioè spiritualmente fecondi. L’espressione che segue è poi ancora più drastica: “senza di me non potete far nulla”. Tutte le fatiche e le strategie escogitate in ordine alla missione e alla salvezza risultano vane senza l’intimità con Gesù. Ciò che viene chiesto in definitiva ai discepoli non è solo di essere fedeli, ma di avere un saldo e perenne legame con la parola e la persona di Gesù, di amarLo davvero cosicché l’amore, fecondo per sua natura, “porta frutto” e sfocia nell’amore vicendevole tra i credenti. A questo punto “chiedete qualunque cosa” e (letteralmente) “vi sarà fatto”: “passivo divino” per dire che il Padre non può rifiutare nulla a quanti sono fedeli e uniti a Suo Figlio. Allora verifichiamoci in merito al nostro legame con il Signore e di conseguenza chiediamo…

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA
Atti degli apostoli 9,26-31

SALMO RESPONSORIALE
Salmo 21

SECONDA LETTURA
Dalla I Lettera di Giovanni 3,18-24

VANGELO
Vangelo di Giovanni 15,1-8

 

AUTORE: Giuseppina Bruscolotti