Gli anniversari sono importanti perché sono l’occasione di ricordare il motivo per cui quell’anniversario si celebra, e la 40a Giornata nazionale per la vita del 4 febbraio non fa certo eccezione. Nata per iniziativa dei Vescovi italiani a seguito dell’approvazione della legge 194, che ha legalizzato l’aborto in Italia, sarebbe riduttivo confinarla all’opposizione a una legge, pur gravemente ingiusta.
È necessario prendere atto, anche se con amarezza, che in questi quarant’anni la secolarizzazione sempre più spinta del nostro Occidente è andata di pari passo con una svalutazione del bene “vita” in generale, e non solo di quella appena concepita e non ancora nata, a favore di un’idea di autodeterminazione come trave portante di una nuova impalcatura valoriale.
Nell’“inizio vita” si parla di autodeterminazione della donna di fronte a una generica maternità, e non guardando a una vita umana ben precisa, quella del nascituro che ha in grembo. Il bene che si vuole tutelare è la sua libertà di scelta, come se decidere di portare avanti una gravidanza o di interromperla avesse lo stesso valore e lo stesso peso.
Il biotestamento
Ugualmente sta accadendo adesso nel “fine vita”, soprattutto dopo la recente approvazione della legge sul consenso informato e il cosiddetto biotestamento: come è noto, adesso interrompere i sostegni vitali come alimentazione e idratazione artificiale è diventato un diritto esigibile, a prescindere dal fatto che si sia o meno in prossimità della morte, e che tali sostegni siano sproporzionati o gravosi. Il che significa che essere lasciati morire se si dipende da un dispositivo sanitario anche semplice, come una flebo o un sondino, adesso è possibile, sia quando si è in grado di dare un consenso attuale, sia per un ipotetico futuro, quando lo si lascia scritto nel proprio biotestamento.
In altre parole, a essere tutelata non è più la vita di una persona in uno dei suoi momenti di maggior vulnerabilità, cioè nel caso di una malattia grave e inguaribile (ma non incurabile), ma la personale possibilità di stabilire se essere o no curato, come se le due opzioni fossero equivalenti, come se scegliere di vivere o di morire avesse lo stesso valore.
Cultura dello scarto
Ed è sempre nel nome dell’autodeterminazione che si può decidere di fare la diagnosi preimpianto agli embrioni formati in laboratorio nella fecondazione assistita – mettendo per il momento da parte tutte le considerazioni sulla pratica in sé, per motivi di spazio – scartando quelli “malati” e trasferendo in utero solo i “sani”; o che si può sopprimere il nascituro durante la gravidanza, se si scopre che sarà disabile. E analogamente, per i malati di Alzheimer, o per le persone in stato vegetativo o in minima coscienza, e più in generale per tutti quei disabili che vivono una condizione di non autonomia: è in queste situazioni che si pensa che la vita non vale più la pena viverla.
Papa Francesco ha parlato più volte della “cultura dello scarto”, quella secondo cui ci sono persone di serie B, che nella mentalità diffusa sono innanzitutto coloro che non riescono ad autodeterminarsi, cioè, in altre parole, coloro che dipendono in modo importante da altre persone. Disabili, malati, specie se vecchi o bambini. Il piccolo inglese Charlie Gard aveva una “bassa qualità di vita” per via di una malattia neurodegenerativa ultra- rara, ed il massimo interesse per lui era morire, secondo i suoi medici e i giudici, i quali, contro la volontà dei genitori, hanno impedito un tentativo di curarlo (pur con poche possibilità di riuscita), ed hanno imposto di interrompergli la ventilazione artificiale, provocandone la morte. Lo stesso sta accadendo alla quattordicenne francese Inès, non malata ma in stato vegetativo, per cui non ci sono terapie in discussione, ma solo respirazione e nutrizione artificiale, che non ‘curano’ ma mantengono in vita.
Noi “dipendiamo”
E purtroppo l’elenco rischia di diventare lungo. Non hanno mai avuto un nome i milioni di bambini non nati, abortiti per le tante “leggi 194” che sono in vigore nel mondo, e d’altra parte le persone fatte morire per pratiche eutanasiche, dirette ed esplicite o indirette e non dichiarate, sono talmente numerose che riusciamo a ricordare solo coloro che sono diventati “casi” internazionali.
E ci stiamo pericolosamente abituando a tutto questo. Dipendere da qualcun altro è diventato insopportabile, è sinonimo di perdita della libertà, propria e altrui. Anche se quel qualcuno è la persona amata: il marito, la moglie, un figlio, un familiare.
Ma è possibile vivere senza dipendere da altre persone? La risposta è no.
Dal “Libro bianco”
Nel Libro bianco sugli stati vegetativi e di minima coscienza, scritto dalle associazioni dei familiari delle persone in questa condizione, si legge: “Cambiare vuol dire accettare la dipendenza; la dipendenza di colui che assiste il paziente dagli aiuti, dai volontari o dagli operatori che entrano in casa e che spesso sono sentiti quasi come una invasione della propria privacy, ma che tanto fanno per la famiglia e il paziente; vuol dire accettare la dipendenza dai servizi che fanno arrabbiare per la loro lentezza e spesso la loro sordità, ma che forniscono i supporti necessari per il quotidiano; vuol dire accettare la dipendenza del proprio congiunto di cui il familiare diventa voce, occhi, orecchi, memoria.
Viviamo nell’illusione di essere indipendenti, autonomi da tutto e tutti, di solito pronti a scappare quando il rapporto con l’altro impone restrizioni o vincoli alla nostra libertà. Rinunciare a questa illusione è forse il primo passo che permette a una famiglia di ricostruire un equilibrio in cui, nella cura del proprio membro più debole, ci sia spazio per la realizzazione di tutti, in una costruzione comune per la migliore qualità di vita possibile”.
Parole di vita e di speranza, scritte da chi vive sulla propria pelle situazioni intollerabili, per i nostri tempi, e che invece mostrano quanto quella vita e quella speranza abbiano significato, aprendo uno squarcio su un diverso mondo possibile.
Leggi anche il Messaggio del Consiglio permanente Cei per la Giornata.