Il colloquio di Gesù con Nicodemo si trova, nel piano narrativo del Vangelo giovanneo, appena al terzo capitolo, cioè praticamente al suo inizio, ma i contenuti lì trasmessi sono già carichi di presagi di morte. Forse per questa ragione – e anche perché il fariseo parla di segni/miracoli già compiuti da Gesù e di cui è a conoscenza (cfr. Gv 3,2) – alcuni studiosi pensano che l’episodio del dialogo si trovasse originariamente più avanti nel Vangelo, dopo il racconto dei miracoli compiuti a Gerusalemme.
La principale allusione alla futura passione è quella dei vv. 14-15: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. La coscienza di Gesù di fronte alla sua morte, se vista nel contesto dell’inizio del quarto Vangelo, lascia ancor più sbigottiti. Non siamo, cioè, alla conclusione del racconto, quando oramai l’evangelista ci ha detto degli scontri che Gesù ha avuto coi suoi avversari; Gesù, a questo punto, ha appena iniziato il suo ministero. Certo, sappiamo già dal prologo (che rappresenta una sorta di preparazione al Vangelo), che “i suoi” non l’hanno accolto (cfr. Gv 1,11), ma qui Gesù parla con molta più chiarezza del suo destino. Sappiamo anche che poco prima del nostro colloquio con Nicodemo Gesù ha cacciato i mercanti dal Tempio, e anche in quella occasione ha parlato della distruzione del suo corpo; ma qui Gesù parla addirittura del suo innalzamento sulla croce.
Si tratta di una predizione della passione del tutto analoga a quelle tre che sono documentate nei Vangeli sinottici (cfr. Mc 8,31; 9,31; 10,33-34), e infatti con quelle condivide alcuni caratteri. Anzitutto l’espressione “Figlio dell’uomo”, che viene usata proprio per descrivere colui che patisce la stessa sorte degli uomini. Vi è poi un altro dettaglio, l’uso del verbo essere necessario (“dei”, in greco): questo verbo designa una necessità incondizionata, da attribuire alla stessa volontà di Dio. In qualche modo, significa che quello che sta accadendo “era già stato scritto”, e quindi profetizzato nei libri sacri (Balz-Schneider). Infatti, ecco che dietro le parole di Gesù sul serpente ci sono proprio due testi dell’Antico Testamento. Il primo riferimento è all’episodio narrato nel libro dei Numeri (21,6ss.).
Il popolo, nel deserto all’uscita dall’Egitto, si è nuovamente ribellato contro Dio, lamentando la mancanza di acqua e di buon cibo. Mosè, per salvarlo dal castigo dei “serpenti che bruciano”, deve costruire un serpente e metterlo su un’asta. Dio gli dice: “Chiunque lo guarderà resterà in vita” (Nm 21,8). L’idea, come si vede, è molto vicina alle parole di Giovanni, per cui “chiunque crede in lui (il Figlio dell’uomo innalzato) ha la vita eterna” (Gv 3,15). Il secondo collegamento è con il libro del profeta Isaia. Lì, al cap. 52, si parla di un misterioso personaggio, il Servo del Signore, che “avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo – così si meraviglieranno di lui molte genti” (Is 52,13-15).
L’innalzamento di Gesù, anche in analogia con gli annunci della passione che si trovano nei sinottici, non significa allora soltanto la sua crocifissione. Certo, il Servo del Signore deve patire, e morire, ma anche essere innalzato. Qui abbiamo così un’anticipazione della futura glorificazione di Gesù, l’elevazione del Figlio che si avvicina così ancor più al Padre, per potervi poi far ritorno, finalmente, lì da dove era venuto. Ecco confermato un dato che emerge molto chiaramente nella teologia del Vangelo di Giovanni. Per questo Vangelo, la morte del Messia è indissolubilmente legata alla sua risurrezione, e tutt’e due queste componenti formano la glorificazione del Signore Gesù. L’una e l’altra non possono essere separate. Guai a pensare ad una fine di sofferenza e di morte, senza esito di speranza. Allo stesso modo, anche negli annunci della passione nei sinottici, al dolore è accompagnata la salvezza; Gesù insegna, infatti, che il Figlio dell’uomo deve soffrire, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, “dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8,31).
Ma guai anche a staccare la passione dalla risurrezione. La glorificazione è data dal fatto che Gesù, con coraggio, offre la sua vita per i credenti, lasciandosi innalzare sulla croce, come il serpente è stato innalzato per la salvezza del popolo di Israele. La vita eterna, allora, è credere – come dice Giovanni – nel risorto, ma quello crocifisso (cfr. Gv 3,15).