Economia umbra in picchiata: come invertire la rotta

L’Umbria, dal punto di vista dei risultati economici, fa ormai parte del “Sud” del Paese.

Questo è quanto emerge dalla fotografia fornita dai dati sulle economie regionali della Banca d’Italia. Il reddito medio degli umbri nel 2015 (pari a 23.700 euro) è non solo il più basso di tutto il Centro-Nord (la cui media è di 31.900 euro) ma è rimasto indietro anche rispetto a quello medio nazionale (27.000 euro) e a quello di una regione considerata a tutti gli effetti del Sud come l’Abruzzo (24.200 euro). Non è una novità di oggi il ritardo dell’Umbria. Era già ben visibile molto prima della crisi. Già da tanti anni gli osservatori più attenti avevano lanciato l’allarme di una produttività pericolosamente stagnante. Ma con la crisi iniziata nel 2007-2008 il ritardo è diventato una voragine, che a questo punto non sarà facile richiudere.

L’impoverimento degli umbri ha innanzitutto una spiegazione “ quantitativa” , dovuta al fatto che con la crisi si sono persi molti posti di lavoro. Ancora nel 2015 l’Umbria ha perso, in percentuale, più occupazione di tutte le altre regioni del Paese. E questa perdita ha riguardato tutti i settori. Pertanto anche il tasso di disoccupazione rimane a un livello elevato, pari quasi al 10%. Ma ha anche una spiegazione “qualitativa” , ancora più importante di quella quantitativa: la gran parte dei posti di lavoro esistenti, e anche la gran parte di quelli che le imprese hanno creato in questi ultimi anni, sono all’interno di attività a basso o medio contenuto tecnologico, quindi lontani dall’“economia della conoscenza” e dai processi che valorizzano il lavoro qualificato, che producono innovazioni e generano sviluppo. In Umbria il 63,8% dei nuovi posti di lavoro previsti dalle imprese sono di livello mediobasso, una percentuale peggiore di ogni altra regione. Un profilo mediocre che l’Umbria condivide con Marche e Toscana, ma che nella nostra regione determina conseguenze particolarmente gravi. È questo deficit qualitativo la lente più utile a comprendere il declino economico dell’Umbria.

Volendo indicare sinteticamente i fattori all’origine di questo stato di cose, si possono ridurre a due: un sistema economicoe imprenditoriale con tratti strutturali deboli, e un orientamento delle politiche , a partire da quelle regionali, sbagliato e dannoso. Ciò che risulta evidente a chiunque, a questo punto, è che serve un drastico cambio delle politiche pubbliche, così come una consapevolezza e un’assunzione di responsabilità nuova da parte di tutti i soggetti, imprenditoriali, sindacali, culturali, che a diverso titolo concorrono alla definizione di tali politiche e sono in grado, per la loro parte, di orientare l’economia regionale o parti (settori o territori) di essa. Alcuni settori del laicato umbro, a partire dall’Azione cattolica, hanno offerto contributi di analisi e di discernimento in questa direzione. Vale la pena di ricordare, in particolare, la pubblicazione, qualche anno fa, del volume dedicato alla crescita dell’Umbria intitolato Poliarchia e bene comune (a cura di Silvia Angeletti e Giorgio Armillei per il Mulino).

Tuttavia da parte della Chiesa, nelle sue varie componenti, sono mancate riflessioni e un esercizio di discernimento diffuso, è mancato un richiamo alle responsabilità proprie di chi esercita un potere nella vita politica, economica o culturale di fronte alla gravità della situazione, assecondando di fatto la deriva che ha portato l’Umbria a impoverirsi e a veder svilito il proprio potenziale di crescita.

Tra le priorità da affrontare vi è la necessità di potenziare il ruolo dei poli urbani, a partire da quelli di Perugia e Terni, facendone centri attrattivi di risorse qualificate in una molteplicità di campi, da quelli della tecnologia a quelli delle attività del tempo libero, da quelli creativi a quelli della formazione, capaci di assorbire e diffondere innovazione e di migliorare la qualità dei servizi. A questo scopo è vitale far uscire la mobilità , tanto quella tra Perugia e Terni quanto quella dei due capoluoghi verso l’esterno, dalla situazione attuale, ormai “preistorica”, verso standard europei. L’ Università , da parte sua, è chiamata a riprendersi il ruolo che le compete coltivando l’ambizione di dar vita a un polo del sapere e della formazione universitaria del centro Italia di livello europeo. Lo si può fare ricercando sinergie con altri atenei delle regioni del Centro. C’è poi bisogno che la politicaindustriale si liberi finalmente della funzione impropria di ammortizzatore sociale a cui è stata sacrificata fino a oggi, per divenire leva per la crescita di attività manifatturiere e terziarie qualificate. A questo proposito, è auspicabile che le imprese approfittino delle opportunità dei programmi di “industria 4.0” per generare una forte domanda di servizi specializzati. E le politiche pubbliche hanno l’occasione per facilitare la crescita di nuclei importanti di servizi avanzati alle imprese, facendone i centri dinamici delle nuove economie urbane.

Ultimo, ma non per importanza, il settore complessivo dellasanità, principale voce della spesa pubblica regionale e servizio di primaria importanza per una popolazione che invecchia, deve essere potenziato ricercando qualità ed efficienza.

 

AUTORE: Giuseppe Croce