La liturgia di questa terza domenica del tempo ordinario presenta due temi di grande importanza: l’invito alla conversione e la chiamata di coloro che saranno mandati ad annunciarla. La prima lettura presenta un personaggio, Giona, a cui Dio comanda di andare a Ninive, capitale dell’impero assiro, ad annunciare la prossima distruzione della città. Egli ubbidisce, va, predica la conversione dei costumi, e incredibilmente gli abitanti di quella città si convertono, Dio li perdona e la città rimane in piedi. Tutto è bene quello che finisce bene! Se uno però legge completamente il testo del libro (quattro capitoletti, pari alle dimensioni di un racconto breve), scopre che le cose non sono andate in maniera così semplice e ingenua. La chiamata di Giona, di cui parla la lettura di oggi, infatti, è la seconda chiamata che egli riceve da Dio. La prima era stata rifiutata senza tentennamenti. Narra il testo sacro che, quando Giona sentì il Signore che gli chiedeva di andare a Ninive, si affrettò ad andare esattamente dalla parte opposta (Gio 1,3); rispetto a Gerusalemme infatti, Ninive si trovava verso oriente, Giona invece va a Giaffa, porto del Mediterraneo, e si imbarca per la costa spagnola, verso occidente. Pensava che si sarebbe liberato così dalla presenza ingombrante del Signore.
Come era possibile, pensava lui, omologato alla mentalità popolare dell’epoca, che il Dio che abitava in Gerusalemme avrebbe potuto arrivare oltre il Mediterraneo? Pagò il passaggio in anticipo e andò ad addormentarsi nella stiva. Il riposo non durò a lungo, perché in mare si scatenò una tale tempesta che gli fu impossibile rimanere tranquillo. I marinai dell’equipaggio, tutti pagani, cominciarono a pregare ciascuno i propri dèi e incitarono Giona a fare altrettanto con il suo. A quel punto il profeta disobbediente confessò tutto, riconobbe di essere responsabile di quanto stava accadendo e chiese di essere gettato in mare: la tempesta si sarebbe placata. Infatti così avvenne. Ma Giona non affogò. Dio aveva deciso di salvarlo. Dopo tre giorni si ritrovò miracolosamente vivo sulla spiaggia palestinese. La morte, simboleggiata da un mostro marino, non riuscì a tenerlo prigioniero e dovette restituirlo alla vita. Fu lì che arrivò la seconda chiamata di Dio, alla quale non poté rifiutarsi. Il resto lo abbiamo letto.
Ma le cose non finirono lì (c’è ancora una capitoletto da leggere). Il devoto lettore si aspetterebbe di trovarvi narrata la gioia di Giona nel vedere che la sua predicazione aveva riscosso un successo così clamoroso e inaspettato: una città totalmente convertita. Invece troverà che “Giona ne provò gran dispiacere e ne fu indispettito” (Gio 4,1). Allora elevò al Signore questa preghiera incredibile: “Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!”.
Poveretto! C’è da capirlo: si sentiva un traditore della patria. Ninive era il nemico numero uno di Gerusalemme; da essa aveva ricevuto solo distruzione e schiavitù. Era assurdo – pensavano Giona e i suoi concittadini – che Dio la potesse perdonare. Lui, Giona, non Lo avrebbe certamente aiutato. Non sarebbe stato collaboratore di tanto abominio. Con questa piccola narrazione, la Scrittura santa dice semplicemente che Dio non è come lo immaginiamo. Come quando pensiamo di poterlo consigliare su come comportarsi in quell’occasione o quell’altra. O quando riteniamo che era meglio se avesse fatto come dicevamo noi. Non possiamo farci un Dio a nostra immagine e somiglianza.
La lettura evangelica è divisa in due parti: l’inizio della predicazione di Gesù in Galilea (Mc 1,14-15) e la chiamata dei primi quattro discepoli (1,15-20). Marco riferisce che l’attività di Gesù cominciò dopo la scomparsa di Giovanni Battista, che ne era stato il precursore. L’inizio della predicazione è riassunta in quattro espressioni molto concise e pregnanti: “È compiuto il tempo; il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi; credete all’evangelo” (1,15). Vale a dire: è finito il tempo dell’attesa; è inutile aspettare qualche altro avvenimento preparatorio; non si può più traccheggiare; ci si può solo decidere ad accogliere la sovranità di Dio, che si è fatta vicina.
La chiamata a conversione non è tanto un’esortazione moraleggiante, ma l’invito ad entrare in una nuova visione del mondo, di Dio, dell’uomo, dei rapporti tra noi, degli avvenimenti. “Credere all’evangelo” equivale a fare esperienza dell’incomprensibile bontà di Dio. Domenica scorsa abbiamo ascoltato Giovanni evangelista narrare la vocazione dei primi quattro discepoli. Oggi ascoltiamo l’evangelista Marco che lo fa in maniera diversa. Si tratta dello stesso episodio, ma esposto in forma più sintetica, secondo lo stile che gli è proprio.