Il lavoro sta cambiando a una velocità ‘spaziale’, mentre le riflessioni su questo cambiamento procedono all’indietro: spesso si fanno con le lenti del lavoro che fu. E quindi è cosa buona e giusta che i cattolici italiani si interroghino su cos’è diventato, e su come deve essere il lavoro, all’interno di un dibattito che appare stantio e un po’ stanco.
Lo faranno a Cagliari nell’ambito della Settimana sociale, ma il solco l’ha già tracciato Papa Francesco con quei quattro aggettivi che sono un programma: libero, creativo, partecipativo, solidale. Questo l’obiettivo: i modi per arrivarci sono appunto pane per i nostri denti.
Perché c’è anzitutto da afferrare cosa sia diventata, e soprattutto cosa diventerà un’occupazione che non ha quasi più nulla a che vedere con quella che, a fine anni Sessanta, ispirava lo Statuto dei lavoratori e tutta una legislazione e una pratica sindacale che oggi appaiono sempre più obsolete.
Le leggi si modificano – e il Jobs Act ha dato una bella sterzata – dando il loro contributo al cambiamento: in meglio o in peggio? Nel frattempo, la contrattazione collettiva, che è stata l’architrave delle relazioni sindacali della seconda metà del Novecento, sta velocemente finendo in soffitta. Perché è l’aggettivo “collettivo” che non fotografa più la situazione: ognuno sta diventando sindacalista di se stesso, affrontando proposte che variano nella retribuzione, nei diritti-doveri, nella tempistica contrattuale, negli orari di lavoro, nei giorni lavorativi, nelle mansioni richieste, nei legami con l’azienda con cui si collabora.
Insomma, mancano proprio tutti quegli standard (operai-impiegati; contratto a tempo indeterminato; circa 40 ore lavorative dentro gli stabilimenti aziendali, ecc.) che c’erano e che ora rimangono a volte come simulacri. Il solo definire “operaio” un addetto che controlla macchinari assai complessi per la realizzazione del prodotto, risulta oggi fuorviante.
Il cambiamento però ha portato qualche virus assai debilitante: una precarietà lavorativa che si riflette nelle condizioni di vita; un abbassamento medio delle retribuzioni; una forbice sempre più ampia tra lavori “pregiati” e altri con troppi in fila per quel posto; un progressivo allontanamento fisico dall’azienda diventata committente per la persona che vi dedica il suo tempo; l’atomizzazione dei lavoratori, che non conoscono i propri “colleghi”.
Ci sono virus che appaiono ormai intaccabili, casomai arginabili; altri contro i quali si potrebbe lottare efficacemente. Molto deve fare il legislatore, impegnato a riappropriarsi di una materia negli anni delegata alle controparti sociali; e la politica va nutrita di buone idee che anche noi cattolici abbiamo il dovere di esprimere. Il sindacato appare sempre più debole e marginale rispetto a questi processi; e la posizione degli individui schiacciata da un mercato del lavoro asfittico, dove il coltello dalla parte del manico non ce l’ha sicuramente un neo-laureato, per dire.
Non sarebbe male che, per riequilibrare la situazione, pure gli imprenditori capissero che i loro “collaboratori” sono la parte vitale della loro azienda e non solo meri fattori di costo. Forse gli italiani lo capiscono meglio di certa imprenditoria multinazionale di stampo anglosassone, che da quest’orecchio non vuole proprio sentirci.
Chi sarà adesso a tutelare i lavoratori?
AUTORE:
Nicola Salvagnin