La settimana scorsa mi sono occupato dei pregiudizi (o stereòtipi) e ho messo in guardia il lettore contro la tentazione di giudicare sbrigativamente una persona sconosciuta basandosi solo su un dato isolato, come l’appartenenza religiosa o le origini etniche. Il concetto era che ogni individuo è diverso dall’altro, e ciascuno deve essere giudicato e compreso per quello che è, non per l’idea che di lui ci siamo fatta in anticipo per via delle sue origini. Adesso però debbo mostrare l’altro lato della medaglia, che non smentisce il primo ma lo completa. S
e è vero che da un certo punto di vista tutti gli esseri umani sono uguali fra loro, e che da un altro punto di vista sono tutti diversi (in quanto ogni persona ha una sua individualità irripetibile), è vero anche esiste una pluralità di tradizioni culturali, con la conseguenza che tutti quelli che condividono una determinata cultura si assomigliano, per certe cose, più di quanto assomiglino a coloro che appartengono a una cultura diversa. Come ci sono quelli che come lingua madre hanno l’inglese, e altri che hanno il cinese, così i primi hanno una tradizione culturale anglosassone, e gli altri hanno quella confuciana. Con ciò che ne può derivare riguardo ai loro comportamenti sociali.
Nel secolo XX è stata sistematizzata una scienza apposita, l’antropologia culturale (ne è stato docente a Perugia, per decenni, Tullio Seppilli, morto questi giorni in tarda età). C’è contraddizione fra il combattere il pregiudizio e l’ammettere la diversità delle culture? No. A condizione che si prenda lo studio delle culture come uno strumento, una chiave, per meglio conoscere e comprendere l’individualità della persona che ci sta davanti, e quindi avvicinarci meglio; non, invece, come un mazzetto di etichette prestampate, da appiccicare sulla fronte degli individui per classificarli una volta per tutte e dispensarci così dalla fatica di conoscerli. Il dialogo non consiste nell’ignorare le differenze, e nemmeno nel far finta che non esistano. Bisogna invece che siano ben conosciute, proprio perché solo così i dialoganti possono capirsi veramente fra loro e magari scoprire, come suggeriva Papa Giovanni, che ciò che ci unisce è più importante di quello che ci divide.