Sabato 3 giugno, sono a scuola ma è vuota. Gli studenti sono tutti in centro a correre e a tirarsi farine colorate. Qualche docente si lamenta per questo ponte un po’ “farlocco”, loro in centro e noi qui a correggere le ultime verifiche. Io ascolto ma in silenzio mi dico che in fondo è giusto: correre e sporcarsi di colore sotto il sole pieno di giugno ha molto a che fare con i loro 14-18 anni.
Entro in un’aula e trovo un quotidiano del giorno prima. Inizio a sfogliarlo, leggo un articolo sugli sviluppi dell’ultima valanga d’ansia fatta calare sui ragazzi: la Blue Whale e i presunti casi d’emulazione. Non leggo l’articolo, mi stufa già solo il titolo apocalittico, ma inizio a pensare a quest’anno ormai concluso.
Mi vengono in mente due constatazioni. Oddio, a dire il vero sarebbero tre, ma la prima è fin troppo scontata. Si tratta di quella che Lucchetti, anni fa nel film La scuola, definì felicemente “la maledizione del professore”: quel sortilegio strano per cui il docente si trova a lavorare quarant’anni in un posto dove le creature che lo popolano rimangono perennemente ferme ai 14-18 anni, mentre lui ovviamente invecchia. Ma questo, oltre ad alimentare le mie perenni botte di malinconia, potrebbe interessare davvero pochi. Meglio concentrarsi sulle altre due considerazioni.
La prima è semplice ma, per quanto mi riguarda, cristallina; e parte proprio da quel titolo tremebondo. A scuola quest’anno ho incontrato una marea di ragazzi con facce sorridenti e piene di vita. Al netto dei problemi, delle complicazioni, dei drammi familiari, chi lo negherebbe. Conosco e so. Ma mi preme testimoniare come, più che giovani con facce da Blue Whale, io quest’anno abbia visto giovani con facce vive, quelle facce che, per rimanere al nostro territorio, in molti di noi hanno visto alla Star Cup.
Su questo ho poco da aggiungere, è per me semplicemente l’evidenza di questi 200 giorni di quest’anno, ma in fondo anche di questi quindici anni che sto tra i banchi. Se c’è stata qualche balena mortifera in giro, forse l’ho vista negli occhi di certi adulti che li hanno guardati, questi ragazzi, nelle parole e nelle immagini di certe narrazioni su questi ragazzi, nelle sentenze da fine del mondo che troppo spesso, noi con la pancia piena delle nostre vite avviate e forse poco amate, ci siamo permessi di officiare su di loro.
La seconda constatazione me la ricorda Facebook che mi scorre sotto gli occhi e la foto meravigliosa di una mia alunna albanese di qualche anno fa che si è appena laureata alla Bocconi. A scuola, ogni anno di più, quest’anno ancora più dell’anno scorso, tocco con mano un processo silenzioso, carsico ma prepotente, di integrazione tra i ragazzi del mondo che ormai popolano le nostre aule. Al netto anche in questo caso delle complicazioni, delle fatiche, delle complessità, è per me lampante come la scuola sia un luogo assoluto di integrazione continua.
Su questo avrei molto da aggiungere, nella doppia veste di insegnante che sperimenta quotidianamente come le parole “integrazione” e “futuro” camminino per mano, ma anche in quella di genitore che ha deciso di far studiare con profitto e riconoscenza i propri figli in quell’esempio di costruzione di un mondo nuovo che è l’istituto comprensivo 12 di Ponte San Giovanni. Insomma e per concludere: ragazzi vivi e non morti, in un mondo che è vero che cambia, ma non necessariamente in peggio.
Considerazioni ingenue? Consolatorie? Non saprei. So solo che, in questo momento, il sole pieno di giugno, oltre che dei ragazzi, è anche un po’ mio.