Si torna a discutere della benedizione pasquale nelle scuole. Succede per le contestazioni provocate dall’iniziativa di una scuola di Perugia, che aveva programmato questo breve rito curando che non interrompesse le lezioni e che la partecipazione fosse facoltativa.
Queste contestazioni stupiscono, perché le regole erano state già chiarite diversi anni fa da una sentenza del Tar Umbria e molto più di recente da una sentenza del Consiglio di Stato, pubblicata il 27 marzo scorso, relativa a un episodio di Bologna. Consentire che nell’ambiente scolastico – in orario o fuori orario – si svolga qualche iniziativa estranea all’attività didattica ufficiale (una conferenza, un concerto, un incontro sportivo) rientra nell’autonomia affidata agli organi di ciascuna scuola, di norma al Consiglio d’istituto. Naturalmente la scuola non è obbligata ad autorizzare qualsiasi cosa; deve verificare che l’iniziativa risponda a un interesse degli allievi (non necessariamente di “tutti”), che non abbia controindicazioni di ordine organizzativo, che non abbia contenuti diseducativi, eccetera. Ma i requisiti fondamentali sono due: che nessuno sia obbligato a partecipare o anche solo ad assistere se non vuole, e che non ci sia disparità di trattamento. In questo senso il caso delle benedizioni pasquali è da manuale. In tutti i casi di cui si è discusso, era esclusa ogni interferenza con l’attività didattica, e sarebbero stato coinvolto solo chi avesse liberamente scelto di partecipare.
Del resto, sappiamo tutti in che cosa consiste una benedizione pasquale. La semplicità e la breve durata del rito garantiscono che non vi siano problemi organizzativi per la scuola. Nel suo corso non viene fatto o detto nulla che possa offendere la sensibilità di chicchessia: non vengono pronunciate istigazioni alla guerra santa, maledizioni o anatemi contro gli infedeli o diversamente fedeli. Insomma, da nessun punto di vista emergono ragioni per cui la scuola – in presenza di una richiesta degli studenti o delle loro famiglie – debba dire di no. E in effetti, chi si oppone porta un solo argomento: che si tratta di una manifestazione religiosa, e questo sarebbe in contrasto con la laicità della scuola. Insomma, se qualcuno proponesse di organizzare nella scuola, invece che la benedizione pasquale, un torneo di scacchi, un cineforum, una conferenza per promuovere l’ideologia vegana (che non è una religione), nessuno avrebbe niente da obiettare e nessuno farebbe ricorso. Ma se un gruppo di scolari vuole riunirsi cinque minuti una volta in un anno per recitare una preghiera, quello no, quello non si può fare, perché non si può violare “la laicità della scuola”. Ma questa non è laicità, è intolleranza religiosa.
Chi si sente offeso perché qualcuno – senza interferire nella libertà altrui – esprime il proprio sentimento religioso, è un intollerante. Giustamente quindi il Consiglio di Stato ha ricordato che l’art. 20 della Costituzione vieta che la natura religiosa di un’associazione sia presa come motivo per imporre limitazioni alla sua attività. Fra le molte implicazioni di questo principio vi è anche che non si può negare uno spazio pubblico a una manifestazione solo perché essa ha natura religiosa, mentre – a parità di ogni altra condizione – una manifestazione non religiosa sarebbe consentita. È chiaro però che chi rivendica per sé la libertà di organizzare un evento religioso deve riconoscere uguale libertà anche agli altri. Questo è l’autentico concetto della laicità dello Stato.