Alla fine la legge regionale sul contrasto alla discriminazione e alla violenza omofoba è passata. Soffertamente. Essendo in chiusura di giornale, riserveremo nel prossimo numero adeguato spazio per l’analisi e la valutazione del testo emerso dall’aula e delle eventuali ripercussioni che il tormentato cammino che ha condotto alla sua adozione potrà – o non potrà – avere sui delicati equilibri politici umbri (un primo resoconto del dibattito a pagina 4).
Va però commentato “a caldo” il fatto che nelle dichiarazioni di voto finali, da una parte e dall’altra , ci si è lamentati dell’andamento e dei toni della discussione, auspicando per il futuro una diversa impostazione di simili dibattiti; constatando i limiti di una norma che risulta frutto di compromesso e non di incontro; riconoscendo infine il valore dell’impegno delle parti avverse: una sorta di “onore delle armi”. La reazione infastidita della presidente Porzi agli applausi finali di parte del numeroso pubblico presente a Palazzo Cesaroni la dice lunga sul clima di disagio vissuto in aula.
D’altra parte in Italia non siamo nuovi a dinamiche del genere; spesso, quando vengono affrontati temi relativi alla vita, ai diritti della persona e alla famiglia – e alcuni di essi impegneranno il parlamento nei prossimi mesi – le contrapposizioni si inaspriscono velocemente e ogni forma di dialogo diventa ben presto impraticabile.
Alcuni dei meccanismi tipici di questo andazzo non sono mancati nemmeno in occasione dell’iter della legge regionale. Il primo è la demonizzazione di chi la pensa in maniera diversa, dove insieme all’acqua sporca dell’ideologia e dell’interesse di parte si butta via anche il bambino della ricerca di migliorare la situazione, perseguendo finalità che tutti affermano di condividere; come nel nostro caso il rifiuto, assolutamente trasversale, di ogni forma di discriminazione.
Il secondo è il cortocircuito tra nuovo e positivo – da una parte – e tra nuovo e negativo – dall’altra. In altre parole, con questa legge l’Umbria si è finalmente allineata alle magnifiche e progressive sorti oppure ha compiuto un altro passo verso la dissoluzione della famiglia? Probabilmente né l’una né l’altra cosa, oppure un po’ tutte e due… sebbene nessuno si sia espresso in tal senso.
Il terzo è l’equivoco della confessionalità, che tende a identificare come “cattoliche” le proprie o le altrui posizioni. Curiosamente, quasi tutte le dichiarazioni finali di voto sono rientrate nella prima fattispecie: favorevoli, contrari e astenuti hanno tenuto a dichiararsi cattolici. Dall’altra parte, si è parlato con sdegno di ingerenze della Chiesa nell’iter di definizione della legge. Dimenticando che una desiderata conformità o un’auspicata difformità rispetto alla dottrina della Chiesa cattolica non possono né devono costituire argomenti di discussione in un’aula della Repubblica. Si tratta invece di portare argomenti di ragione a favore o contro le deliberazioni da adottare in vista dell’interesse comune; argomenti attorno ai quali ci si possa ragionevolmente incontrare e non solo scontrare.
Al di là degli effetti che potrà avere nel modus vivendi degli Umbri, questa legge ha rivelato la necessità di una diversa e più dialogica partecipazione ai processi deliberativi, anche e soprattutto sulle questioni più delicate. E questa, per una volta, non è tutta colpa dei politici.