Quando un prete viene assassinato mentre prega in chiesa da un giovane che grida Allah Akbar, un prete romano che si è dedicato a cercare dialogo, comprensione tra cristiani e musulmani, non ci sono vignette che tengano. L’assassino si dice, si dirà, è uno squilibrato. E quando vengono assaltate chiese cristiane si dice che è opera di fanatici e quando si fanno azioni di kamikaze contro civili si dice che l’Islam non c’entra, sono espressioni di esasperazione e quando si incendiano ambasciate di Paesi europei si parla di risposta alle provocazioni. Tutto questo per dodici vignette pubblicate da un giornale danese in settembre scorso? Con la stessa logica giustificazionista e assolutoria, tra l’altro, si dovrebbe dire che anche quando qualche vignettista o qualche giornalista, in vena di scherzi, o in stato di astinenza creativa pubblica delle caricature di simboli del mondo musulmano, lo fa per ignoranza, per volgarità d’animo, per puerile voglia di provocare e, pertanto, non rappresenta altri che se stesso. Le ripetute manifestazioni antioccidentali che si ripetono in molti Paesi islamici, non sono fatti occasionali e spontanei di gente offesa da qualcosa che non ha neppure avuto modo di vedere, ma rappresentano uno stato d’animo piuttosto generalizzato di gruppi dirigenti che tendono a coinvolgere le masse soprattutto dei giovani: gruppi di potere che hanno interesse a scaricare tensioni sociali interne ai singoli Stati, determinate dal malessere della popolazione, facendo leva sull’atavico sentimento di diffidenza e sospetto sedimentato nella coscienza collettiva della popolazione musulmana allevata nel grembo dell’Umma.
Queste manifestazioni rivelano anche una crisi di identità del mondo musulmano in generale e uno stato di incertezza all’interno delle singole nazioni, che si cimentano da tempo nel confronto con la modernità. Sono anche espressioni eclatanti di uno stato di sofferenza che assume connotazioni di scontro di civiltà, o inciviltà, come ha detto il vescovo Paglia, amico e compagno del prete romano ucciso. È indubbio che non si dovrebbero coprire di sarcasmo e disprezzo simboli religiosi, per i quali i credenti sono disposti a sacrificarsi. Chi non è credente, l’ateo non dovrebbe bestemmiare per rispetto del credente. Si dovrebbe però soprattutto evitare di offendere quell’immagine suprema di Dio che è la persona umana. L’uccisione di un uomo è la vera bestemmia, il vero delitto di blasfemia. Dell’attuale situazione chi soffre in modo acuto sono i cultori del dialogo tra le religioni e le culture, i timorati di Dio che pregano con cuore libero da odio e rancore, i veri credenti che sanno discernere la parola di Dio che chiama alla verità e all’amore, e comanda di non uccidere, né fisicamente, né moralmente il proprio simile e si scontrano con incomprensioni e irrisioni. Essi però sanno che non ci sono altre strade per evitare guerre, violenze e immani sofferenze all’umanità. Ma la prima condizione per riprendere un sentiero interrotto è evitare la cultura del disprezzo, quella che ha generato le più tragiche aberrazioni.
Vignette e caricature dovrebbero essere gestite all’interno del genere letterario della satira che critica certi aspetti presi di mira, ma solo per far sorridere non per generare odio e disprezzo. E nello stendere il confine si deve tenere conto anche della suscettibilità di colui che è preso di mira. In questo momento offrire appigli agli integralisti e ai fanatici non sembra un’azione nè intelligente nè opportuna.