L’interpretazione della parabola di oggi, ritengono gli studiosi, non è operazione difficile: “L’uomo che parte per un viaggio è Gesù. I servi rappresentano la Chiesa, i cui membri hanno ricevuto varie responsabilità. La partenza del padrone è quella del Gesù terreno, il lungo tempo della sua assenza è il tempo della Chiesa, e il suo ritorno è la parusia del Figlio dell’uomo. La ricompensa per i servi buoni rappresenta il premio celeste dato ai fedeli al giudizio, e i malvagi rappresentano coloro che nella Chiesa, a causa delle loro colpe ed omissioni, condannano loro stessi alle tenebre” (Davies – Allison).
Lo scopo della parabola doveva essere, probabilmente, quello di un’esortazione ai credenti per vivere il tempo dell’attesa, invito che ritroviamo in una storia simile tramandataci anche dal Vangelo secondo Luca (19,11-27), che conserva però una conclusione diversa rispetto a quella di Matteo. Detto questo, preferisco soffermarmi su un aspetto molto importante, ovvero quello della visione che i servi hanno di Dio, arrivando così ad una lettura della parabola già segnata nell’antichità da Efrem il Siro. Il terzo servo, quello malvagio, vede Dio in modo molto critico. I servi buoni non esprimono nulla a riguardo, invece il malvagio spiega di aver avuto paura di investire il denaro perché il suo Signore è un “uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso” (cfr. Mt 25,24). Da dove viene un’immagine così negativa di Dio? La parabola sembrerebbe proprio smentirla, quando Matteo scrive che la somma ricevuta dal servo malvagio era sì minore rispetto a quella degli altri due, ma comunque enorme.
Nella versione di Matteo (in Luca per questo punto ci sono molte differenze), rappresenta infatti un ammontare pari alla paga per 6000 giornate di lavoro (un talento è pari 6000 denari, e come Matteo stesso ci spiega nella parabola dei lavoratori della vigna, la paga per un giorno di lavoro è di un denaro; cfr. Mt 20,2). Inoltre, quello che il padrone dà ora ai suoi servi è tutto quello che questi possedeva: “consegnò loro i suoi beni” (Mt 25,14). La somma consegnata ai servi, poi, non è data secondo un criterio capriccioso, quanto piuttosto ‘ come il testo precisamente ricorda ‘ seguendo un criterio oggettivo, quello della “forza” (dynamis) di chi la riceve (cfr. Mt 25,15). Questo termine ricorre ancora con lo stesso significato nella Seconda lettera di Paolo ai Corinzi, ed esprime qualcosa che ha a che fare con le proprie capacità o i propri mezzi: (“Posso testimoniare infatti che hanno dato secondo i loro mezzi e anche al di là dei loro mezzi”: 2 Cor 8,3; cfr. 1,8). La chiave della parabola deve stare allora in un dettaglio, cioè nell’aggettivo con cui sono chiamati i servi che hanno fatto fruttare i talenti: “fedeli”.
Non è una parola qualsiasi per Matteo. Gesù nel primo Vangelo parla della “fede” di coloro che credono in lui per poter essere guariti (quella del centurione, ad es., in Mt 8,10, o del paralitico, in 9,2, e così via), ma l’aggettivo “fedele” è presente solo in questa parabola, riferito ai due servi, e nella parabola del servo ‘fedele e prudente’ nel capitolo precedente, in 24,45. Potremmo dunque dire che la nostra parabola ha a che fare con la fede, è una parabola che dice qualcosa sul credere o non credere in Dio. Le caratteristiche naturali che riceviamo attraverso il patrimonio genetico e sviluppiamo con un’adeguata educazione (l’intelligenza, la forza, l’estro artistico, ecc.) possono essere viste e valutate in molti modi. Per alcuni sono un dono, altri invece non sanno ricondurli a Dio.
Ebbene, nella prospettiva del credente il dono più grande che ci è stato dato è quello della fede. Comunicata attraverso il battesimo, è un seme che può svilupparsi o può rimanere della stessa misura, se non addirittura morire, quando non viene adeguatamente seguito. Anche tale dono, così come quello dato ai servi della parabola, è misteriosamente “personalizzato”, come scrive Paolo nella Lettera ai Romani in due luoghi: “Valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato” (Rm 12,3); “Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia, la eserciti secondo la misura della fede” (12,6). Forse abbiamo qui l’idea che la fede dipenda da tanti fattori, quali ad esempio la famiglia che l’ha comunicata, l’ambiente, la propria personalità, la propria storia; rimane il fatto che per Paolo è stata “data”.
Il terzo servo non ha più fede, l’ha persa col tempo: si è dimenticato che quanto gli era stato affidato doveva essere investito perché portasse frutto per il padrone, ma anche a suo favore. Le parole che dice al padrone sono rivelative: “Ecco qui il tuo”, o meglio, alla lettera, “Ecco, hai ciò che è tuo” (Mt 25,25): quel servo non ha mai considerato i suoi talenti come un dono, un qualcosa di suo. C’è di più. Non solo il servo non ha fatto fruttare i soldi, ma li ha anche occultati. Il male compiuto allora è dato dalla mancanza di fiducia in un Dio buono, ma anche dall’aver tolto agli altri la possibilità di vedere i talenti che questi aveva ricevuto, ovvero di vedere quel Dio che aveva agito in lui. Avvicinandoci al tempo di Avvento, ci viene ricordato che il giudizio di Dio è inevitabile. Prima o poi, ci verrà chiesto conto di quanto abbiamo fatto della vita e della fede. Resta un mistero di libertà, ed un vera e propria possibilità tragica che interpella ciascuno, il fatto che il servo malvagio non abbia accettato di vedere nella fede, e di mostrare, con la vita, Dio e i suoi doni.