La liturgia di questa domenica ci parla della vita dopo la morte. Del resto l’anno liturgico volge al termine, e la Chiesa ci richiama a porre l’attenzione sulle verità ultime. La splendida testimonianza che ci offrono i fratelli Maccabei nella prima lettura è l’anticipazione della nostra idea di risurrezione dai morti. Il Vangelo si apre con la figura dei sadducei, rappresentanti del gruppo religioso e politico della casta sacerdotale; negavano la vita eterna e limitavano la Bibbia ai primi cinque libri di Mosè, la Torah.
Per mettere in ridicolo i farisei, loro avversari, chiedono a Gesù di pronunciarsi sulla risurrezione, evidenziandone l’incompatibilità con la legge mosaica e le contraddizioni che sgorgano da tale fede. Per questo si appellano alla legge del levirato (da levir, che significa cognato), per cui bisogna che il parente prossimo sposi la donna rimasta vedova se è senza figli, in modo da assicurare una discendenza al defunto (cfr. Dt 25,5). La legge del levirato prevede solo la discendenza come possibilità di sopravvivenza oltre la morte. Gesù ribalta le evidenze dei sadducei. In risposta alla domanda a trabocchetto dei sadducei sulla sorte della donna che ha avuto in terra sette mariti, Gesù riafferma anzitutto il fatto della risurrezione, correggendo nello stesso tempo la rappresentazione materialistica e caricaturale che ne fanno i sadducei. La beatitudine eterna non è semplicemente un potenziamento e prolungamento delle gioie terrene, con piaceri della carne e della tavola a sazietà. L’altra vita è davvero un’altra vita, una vita di qualità diversa. È, sì, il compimento di tutte le attese che l’uomo ha in terra, e anzi infinitamente di più, ma su un piano diverso. “Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli”.
Nella parte finale del Vangelo, Gesù spiega il motivo perché ci deve essere vita dopo la morte: Dio è “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”. Dove sta in ciò la prova che i morti risorgono? Se Egli stesso si definisce “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” ed è un Dio dei vivi, non dei morti, allora vuol dire che Abramo, Isacco e Giacobbe vivono da qualche parte, anche se, al momento in cui Dio parla a Mosè, sono già morti da secoli.
Interpretando in modo errato la risposta che Gesú dà ai sadducei, alcuni hanno sostenuto che il matrimonio non ha alcun seguito in cielo. Ma con quella frase Gesù rigetta l’idea caricaturale che i sadducei presentano dell’aldilà, come fosse un semplice proseguimento dei rapporti terreni tra coniugi; non esclude che essi possano ritrovare, in Dio, il vincolo li ha uniti sulla terra. “È possibile che due sposi, dopo una vita che li ha associati a Dio nel miracolo della creazione, nella vita eterna non abbiamo più niente in comune, come se tutto fosse dimenticato, perduto? Non sarebbe questo in contrasto con la parola di Cristo, che non si deve dividere ciò che Dio ha unito? Se Dio li ha uniti sulla terra, come potrebbe dividerli in cielo? Può tutta una vita insieme finire nel nulla senza che si smentisca il senso stesso della vita di quaggiù, che è di preparare l’avvento del Regno, i cieli nuovi e la terra nuova?” (padre Raniero Cantalamessa).
È la Scrittura stessa, non solo il naturale desiderio degli sposi, ad appoggiare questa speranza. Il matrimonio, dice la Scrittura, è “un grande sacramento” perché simboleggia l’unione tra Cristo e la Chiesa (Ef 5,32). Possibile dunque che sia cancellato proprio nella Gerusalemme celeste, dove si celebra l’eterno banchetto nuziale tra Cristo e la Chiesa, di cui esso è immagine? Secondo questa visione, il matrimonio non finisce del tutto con la morte, ma viene trasfigurato, spiritualizzato, sottratto a tutti quei limiti che segnano la vita sulla terra, come, del resto, non sono dimenticati i vincoli esistenti tra genitori e figli o tra amici.
Nel prefazio della Messa dei defunti la liturgia dice che con la morte vita mutatur, non tollitur (la vita è mutata, non è tolta); lo stesso si deve dire del matrimonio che è parte integrante della vita.
Ma cosa dire a quelli che hanno avuto un’esperienza negativa, di incomprensione e di sofferenza, nel matrimonio terreno? Non sarebbe motivo di spavento, anziché di consolazione, l’idea che il legame non si rompa neppure con la morte? No, perché nel passaggio dal tempo all’eternità il bene resta, il male cade. L’amore che li ha uniti, fosse pure per breve tempo, rimane; i difetti, le incomprensioni, le sofferenze che si sono inflitte reciprocamente cadono. Moltissimi coniugi sperimenteranno solo quando saranno riuniti “in Dio” l’amore vero tra di loro e, con esso, la gioia e la pienezza dell’unione che non hanno goduto in terra. È anche la conclusione di Goethe sull’amore tra Faust e Margherita: “Solo in cielo l’irraggiungibile [cioè l’unione piena e pacifica tra due creature che si amano] diventerà realtà”. In Dio tutto si capirà, tutto si scuserà, tutto ci si perdonerà.
E che dire di quelli che sono stati legittimamente sposati a diverse persone, come i vedovi e le vedove risposati? (Fu il caso presentato a Gesù dei sette fratelli che avevano avuto, successivamente, in moglie la stessa donna). Anche per loro dobbiamo ripetere la stessa cosa: quello che c’è stato di amore e donazione veri con ognuno dei mariti o delle mogli avuti, essendo obiettivamente un “bene” e venendo da Dio, non sarà annullato. Lassù non ci sarà più rivalità in amore o gelosia. Queste cose non appartengono all’amore vero, ma al limite intrinseco della creatura.