La comprensione della parabola detta “dei vignaioli omicidi” ha rappresentato un momento significativo nella storia dell’esegesi cristiana. Chi ne volesse un buon resoconto, può leggere il capitolo che ad essa è dedicato nel prezioso volume di Breward Childs, Teologia Biblica. Antico e Nuovo Testamento (Piemme 1998). Forse è meglio iniziare ancora una volta il nostro commento puntualizzando quello che il nostro testo, con molta probabilità, non vuole dire. La settimana passata abbiamo avuto occasione di parlare di una teologia, o meglio di una certa impostazione interpretativa di alcuni brani del Nuovo Testamento, secondo la quale la Chiesa avrebbe sostituito la sinagoga, per diventare il vero Israele.
Gli esperti sanno anche che esiste anche un famoso lavoro del 1975 scritto dall’esegeta tedesco Wolfgang Trilling, intitolato proprio Il vero Israele, e centrato sulla nostra parabola. La tesi dello studioso è che il versetto 41 (“Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo”) significhi una vera e propria punizione per Israele, la quale “perde la sua vocazione e la sua posizione storico-salvifica”‘ (p. 108). L’evangelista Matteo, calcando ancor più i toni della parabola raccontata da Gesù, vedrebbe nelle sue parole ‘un attacco al giudaismo’ e la Chiesa, in questo modo, sarebbe “non un nuovo Israele, subentrato al vecchio, bensì l’Israele vero, quello genuino, così come Dio l’ha pensato sin dall’inizio” (p. 123).
Tale lettura ha bisogno di essere corretta, e attualmente, secondo il parere di maggioranza, si ritiene che nel Vangelo di Matteo non sia scritto nulla di tutto questo. Se è ormai inutile ribadire che Gesù difficilmente deve aver ‘attaccato il giudaismo’ in quanto tale, come invece ritiene Trilling, passiamo subito al secondo punto debole di questa ipotesi. Già anticipato nel Vangelo di domenica scorsa, dice che né Gesù (che ha raccontato la parabola), né tanto meno Matteo, che la riporta, pensano che Israele in quanto popolo sia stato rifiutato da Dio. Certo, qui si parla di una punizione pesante, provocata dalla chiusura verso gli emissari del padrone (quei “profeti, sapienti e scribi” di cui si scrive anche in Mt 23,34) e soprattutto dall’uccisione del figlio, ma questo giudizio grava solo sui leader religiosi, quelli altre volte chiamati ipocriti e guide cieche. La vigna – che è l’Israele santo di Dio, il popolo eletto – non è incendiata o devastata come la città di cui si parla nella parabola seguente (Mt 22,7) ma anzi è pronta per dare frutti buoni; solo, non saranno quegli attuali vignaioli a coglierli: la vigna, il popolo dell’alleanza, verrà affidata ad altri contadini. Come accennavamo nello scorso commento, il problema è l’identificazione di questi “altri”, ovvero il ‘popolo’ a cui sarà affidato il Regno e che finalmente “farà fruttificare la vigna” (Mt 22,43).
Questo popolo in senso generico (gr. éthnos, senza articolo), scrive Alberto Mello, è l’insieme di quelli che, come i pubblicani e le prostitute di cui si parlava nel brano immediatamente precedente, “hanno aderito all’annuncio del regno da parte di Giovanni, di Gesù, dei missionari cristiani, in contrapposizione a quelli che lo hanno rifiutato”. Ecco perché “dovremmo andare cauti nell’attribuire a Matteo un’esplicita concezione della Chiesa quale nuovo o vero Israele; in ogni caso, la prospettiva non è sostitutiva: i vignaioli non prendono il posto della vigna! Se si può parlare di un vero Israele, l’espressione compete al Cristo stesso, pietra angolare”. Quanto detto si accorda con la conclusione di Childs: “È molto importante sul piano teologico capire che la funzione della forma matteana della parabola non è quella di esaltare il cristianesimo rispetto al giudaismo, ma di lasciare aperta la risposta alla rinnovata offerta di riconciliazione fatta dal Cristo innalzato. In un certo senso, la Chiesa si trova in una posizione analoga a quella d’Israele. In un altro senso, tuttavia, essa ha già fatto esperienza del miracoloso intervento di Dio. La pietra scartata costituisce ora la testata d’angolo. Sarà questa generazione di cristiani ad accogliere il regno di Dio e a produrre frutti di giustizia, oppure esso le sarà tolto per essere affidato ad un’altra?”.
Già Ambrogio di Milano vedeva che il pericolo di incorrere nel castigo è per tutti, anche per noi cristiani: “Il vignaiolo è senza alcun dubbio il Padre onnipotente, la vite è Cristo, e noi siamo i tralci: ma se non portiamo frutto in Cristo veniamo recisi dalla falce del coltivatore eterno” (In Luc. 9). Detto questo, è chiaro che la parabola è cristologica e teologica. Il figlio del padrone della vigna è caratterizzato con quegli attributi – come l’idea dell’eredità – che sono tipici del linguaggio di Gesù quando parla di sé e del suo rapporto col padre; la sua morte, fuori delle mura della città, ovviamente ricorda la fine del Messia. Ma la parabola dice molto anche a proposito del Padre: il suo giudizio, stranamente, tarda ad arrivare; Dio è rappresentato addirittura come fin troppo paziente. Qualsiasi ascoltatore del racconto, ai tempi di Gesù, sarebbe rimasto colpito da quella che potrebbe sembrare debolezza di carattere.
Quel Dio invece sa aspettare, e continua a sperare in un cambiamento dei suoi vignaioli, che potrebbero addirittura “rispettare il suo figlio” (cfr. Mt 37). Diversamente da quanto facciamo noi, Dio non si lascia demoralizzare da un rifiuto, insiste nella sua proposta di salvezza e invia, per una seconda volta, altri servi, ancora più numerosi dei precedenti. Egli non vuole mai la morte del peccatore, ma che questi si converta e viva. Purtroppo questo a volte non accade, e la pazienza del Padre arriva allora a mettere in gioco l’unica carta che gli rimane: la vita del Figlio. Gesù ha tanto amato la sua vigna, il suo popolo, Israele, da morire per la sua gente: “Salve, vigna meritevole di un custode così grande: ti ha consacrato di innumerevoli profeti, e anzi quello, tanto più prezioso, versato dal Signore” (Ambrogio, ibid.).