Davanti alla valanga di disperati che sfidano il mare per sbarcare sulle coste italiane, c’è il punto di vista di chi li considera invasori che mettono in pericolo la nostra nazione. Ma noi ci mettiamo dal punto di vista di chi prova orrore e pena per le sofferenze di quegli sventurati (genitori che nella traversata vedono morire i figli, figli che vedono morire i genitori). Una volta che ci siamo messi da questo punto di vista, dobbiamo capire le cause di tante tragedie. E la causa è dura da dire: sta nelle nostre leggi che pure, quando sono state fatte, sono state fatte con le migliori intenzioni. Le nostre leggi dicono che i permessi per l’immigrazione devono essere contingentati, a numero chiuso, Paese per Paese (e sono pochissimi); che chi non rientra in quel numero non può avere il permesso; che chi si presenta alla frontiera senza permesso deve essere respinto.
A meno che non sia in pericolo di vita: allora deve essere soccorso e ospitato. Ecco perché la gente sale sui barconi sfidando la morte (in quelle condizioni, chi cade in acqua è un uomo morto). Se abolissimo il numero chiuso e dessimo il visto d’ingresso a tutti quelli che lo vogliono, invece che sui barconi della morte, verrebbero in aereo spendendo meno. Facile l’obiezione: a quel punto non sarebbero migliaia ma milioni, e non potremmo gestirli. Ma così il sistema dei barconi diventa – nel nostro interesse, anche senza che nessuno lo abbia voluto consapevolmente – l’espediente per mantenere il numero dei migranti entro certi limiti. Detto in parole più crude: poiché non siamo in grado di selezionarli noi, li costringiamo a selezionarsi da soli; vince chi se la sente di sfidare la morte e sopravvive.
C’è un libro di un filosofo italo-americano, Guido Calabresi, scritto circa 40 anni fa e intitolato Scelte tragiche, che mostra come lo Stato, non avendo la forza di garantire la vita di tutti, né il coraggio di scegliere alla luce del sole chi dovrà soccombere, chiude gli occhi e lascia che a scegliere siano le forze del caso. E tutti i cittadini si sentono innocenti. Una fuga collettiva dalla responsabilità.