Il Presidente del Consiglio ha iniziato con larghissimo anticipo la campagna elettorale per il referendum costituzionale confermativo, di cui ha ribadito il carattere politico e periodizzante. Quasi cinque mesi sono un tempo molto lungo, considerato che in mezzo ci sono anche elezioni amministrative in molte grandi città. Avviare oggi la campagna è anche un modo per non impantanarsi nelle vicende metropolitane, battendo sui due pilastri di quella che oggi si definisce la “narrazione” renziana: l’assenza di alternative e la capacità di realizzare riforme, intese l’una e l’altra anche come via per aggregare una nuova “classe dirigente”, quando non una nuova forza politica. A caldo si possono esprimere due considerazioni: sul merito e sul metodo.
Sul merito abbiamo già avuto diverse pronunce di costituzionalisti. Stanno emergendo tre posizioni: un appello al “discernimento”, e contrapposti documenti per il “no” e per il “sì”. La pur ragionevolissima posizione dei primi, che chiedono di “spacchettare” il quesito – come sarebbe utile, in quanto la riforma interviene almeno su due grandi questioni: l’articolazione del sistema parlamentare e quella delle relazioni Stato/Regioni – ha ben poche probabilità di essere accolta. I costituzionalisti invece che si dividono, anche generazionalmente, per il “no” e per il “sì”, convergono nel ritenere necessarie le riforme e nel giudicare il testo mal scritto. Per i primi, questo comporta ripartire e arrivare a una pozione più equilibrata ed efficiente. Per i secondi, si tratta di cogliere comunque l’occasione e poi eventualmente procedere a ulteriori aggiustamenti. Così la scelta rimbalza su considerazioni di carattere sistemico, come il rapporto necessario tra riforma costituzionale e riforma elettorale. Questa infatti necessariamente agisce sulla forma di governo, che invece, per una sorta di preterizione, la riforma costituzionale non affronta esplicitamente.
Ritorniamo così all’iniziativa del Presidente del Consiglio, che ha saputo utilizzare per entrambi questi provvedimenti alternativamente diverse forze parlamentari, di maggioranza e di opposizione, imponendo la sua indubbia capacità di iniziativa politica. Che di fatto lo porta a rilanciare incessantemente e, dunque, a utilizzare la scadenza referendaria per porre una “questione personale di fiducia”, per ottenere una personale investitura. In questo quadro molto complesso e articolato, i mesi della campagna elettorale non devono passare invano tra i rumori di opposte tifoserie. Certo è, sul piano del metodo, che per risolvere i suoi problemi istituzionali, e non solo, l’Italia non ha bisogno di plebisciti: ha bisogno di una concreta azione di governo e, per non cadere preda delle sue ricorrenti nevrosi, di una forte iniziativa di discussione sulla democrazia. Serve un dibattito vero. Papa Francesco ci sprona a ragionare sul “modello di sviluppo” europeo. Cominciamo a lavorare sul suo recentissimo discorso per l’accettazione del premio Carlo Magno [vedi all’interno, a pag. 14]. E andiamo avanti.