Sono ormai un paio di settimane che sotto la volta del cielo risuona il peana a Claudio Ranieri, un romano de Roma che ha portato a vincere la coppa d’Inghilterra il Leicester, una squadra della provincia inglese che da 131 anni vivacchiava sull’orlo della rottamazione, un anno sì e l’altro pure.
Il calcio: un fenomeno poliedrico, con manifestazioni che a volte sono di una stupidità totale, a volte di un’umanità rara. Totalmente stupido è lo spot che ci ammannisce il crollo di annosi edifici e di monumenti equestri famosi al solo risuonare di una voce profonda come il pozzo di S. Patrizio, che proclama: “Io sono il calcio”. Un vocione. Mi si perdoni l’irriverenza: come quello che ne I dieci comandamenti di Cecil B. De Mille faceva vibrare le rocce granitiche del Sinai. Totalmente umana, INVECE, la vicenda di Ranieri e i commenti che l’hanno accompagnata: esemplare quello che ha scritto su La Stampa Gramellini, un giornalista DOC: sa quando intingere Il pennino nel veleno e quando invece nel nettare.
Personalmente devo dire che tutto questo mi ha coinvolto, io che di partite alla TV, o anche al Barbetti di Gubbio, se posso non me ne perdo una, ma non sono un tifoso.
Il tifo mi ha scottato da piccolo e da allora me ne sono tenuto lontano.
Da quando avevo 6 anni fino a quando ne compii 11 era un acceso tifoso del grande Torino. Acceso: servivo Messa ogni giorno, facevo la Comunione ogni giorno, e il mio Gesù lo pregavo, affocato di passione come S. Antonio nel deserto, perché il Torino vincesse il campionato. Modestia a parte, di campionati il Torno ne vinse cinque di fila. E io, a distanza di 57 anni ho ancor scolpita nella mente e nel cuore la formazione dei campionissimi: Bagigalupo, Ballarin, Maroso; Grezar. Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.
Ma quel 4 maggio … 1949 … alle 5 di pomeriggio … l’aereo schiantato contro la collina di Superga ! ….: Avevo 11 anni, e con gli altri seminaristi, tutti incapsulati nel vestito nero, con in cima il colletto di plastica bianco dal quale usciva la testa come un topo dalla damigiana, avevamo detto il rosario di maggio nella Chiesa di S. Filippo. Uscendo, di fronte a noi, dal balcone della casa di fronte, un uomo gesticolava e gridava: era Pietro Barbetti, capopstipite della famiglia che ha dato tanto a Gubbio sul piano della creazione di posti di lavoro. Era lui, e gridava e piangeva, gesticolava e singhiozzava forte: “Ènno morti tutti! Ènno morti tutti!” Mi sentii come trafitto allo stomaco. Più tardi vomitai di brutto, la notte non presi sonno.
La mattina dopo decisi che non avrei più fatto tifo: uno dei pochi, generosi propositi della mia infanzia che ho mantenuto. A parte qualche passioncella per la Roma di Spalletti e il Bologna di Donadoni, e un po’ più che un’antipatia per la Juventus degli Agnelli, che fu allora la grande concorrente del grande Torino.
Abat jour – C’è calcio e calcio
AUTORE:
Angelo M. Fanucci