Si conclude con questa domenica il capitolo delle parabole del Regno nel Vangelo secondo Matteo. Ne abbiamo addirittura tre, molto brevi, tutte introdotte dalla formula “il regno dei cieli è simile a”. Le prime due parabole, quella del tesoro e della perla, sono accomunate dall’idea di un ritrovamento: “‘il regno dei cieli, strettamente parlando, non è simile a un tesoro, tanto meno è simile a un mercante: ma è simile a quello che succede quando si scopre un tesoro, o quando un mercante trova una perla di grande valore” (Mello), ma anche nell’ultima parabola passa il messaggio che qualcosa (i pesci), nascosti sotto il mare, possano essere trovati e raccolti. Diversi sono i denominatori delle nostre parabole.
Il primo potrebbe essere dato dall’opposizione “sopra”-“sotto”: il tesoro, la perla, i pesci, sono nascosti, cioè “sotto” la terra, sotto altre perle di minor valore, sotto il mare. “Sopra” c’è la superficie, l’apparenza, uno strato che impedisce di vedere fino in fondo. Non che ciò che si vede sia finto, tutt’altro: vi è però anche una realtà più profonda, sommersa, un mondo che c’è, ma nemmeno si immagina possa esistere finché non lo si scopre.
Ricordiamo tutti quanto scriveva nel Piccolo Principe De Saint-Exupéry: “L’essenziale è invisibile agli occhi; non si vede bene che col cuore”. Per trovare il tesoro, scovare la perla preziosa, pescare dei buoni pesci, bisogna cercare “sotto” qualcosa, e cercare (come vedremo) sapientemente. Il secondo denominatore è dato dalle conseguenze del ritrovamento. Chi trova un tesoro deve rinunciare a tutto il resto, che deve vendere per comprare il campo dove il tesoro è nascosto; chi trova la perla deve fare lo stesso; chi ha visto i pesci sotto la superficie del mare non può fermarsi a contemplarli ma subito deve tirare le reti prima che i pesci scappino, e poi con fatica deve portare la barca a riva.
La terza realtà dipende dalla precedente: la gioia. Se è espressamente citata solo nel caso del ritrovamento del tesoro (“‘pieno di gioia vende i suoi averi”, Mt 13,44), possiamo immaginarci che anche i pescatori esulteranno quando trovano di che vivere, e il mercante possa senza dubbio essere soddisfatto per l’affare che sta per concludere.
Se si deve rinunciare ai propri beni, a quello che si ha, a qualcosa che dà sicurezza, non è mai per un’ascesi fine a se stessa o per il gusto della rinuncia: è per la gioia, perché il Regno porta una ricompensa infinitamente più grande di quanto si deve lasciare per entrarci. La stessa logica, mi pare, è usata da Gesù per spiegare che chi lascia i beni o gli affetti per il Regno avrà già in questo mondo la gioia del centuplo (cfr. Mt 19,29). Infine, possiamo notare che sotto i simboli del tesoro e della perla si cela forse una realtà che è quella della sapienza. Ricordiamo la donna forte di Proverbi 31,31, paragonata alle perle (“una donna virtuosa chi potrà trovarla – cioè scovarla, come si scova un tesoro – superiore alle perle è il suo valore”), e che però essa stessa è probabilmente immagine della sapienza. Le nostre parabole dicono come sia molto più saggio rinunciare al poco per avere il molto, come sia molto più intelligente aprire le mani piuttosto che tenere stretto un tesoro per paura di perderlo. Anche Gesù non ha ‘tenuto stretto’ il suo tesoro, l’essere Dio (cfr. Fil 2,6), pur di salvare il suo popolo.
Molti studiosi ritengono che nel Vangelo secondo Matteo sia particolarmente importante l’ultima frase del nostro discorso parabolico: lì è Gesù a dire che “ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52), ma in realtà si potrebbe leggere dietro queste parole l’autoritratto di Matteo, l’evangelista. Il nome Mathaios (Matteo) ha qualche assonanza con il greco che traduce “discepolo”: mathetes (cfr. “diventare discepolo”: matheteuo), e questa parola interpreterebbe bene il ruolo svolto da questo scriba, istruito nella Torah (le cose antiche), che viene però da lui vista in una luce nuova, quella del Regno annunciato dal Messia Gesù (le cose nuove).
Non tutti sono d’accordo: Hagner, ad esempio, ritiene che nella Chiesa giudeo-cristiana delle origini molti possano essere considerati come questo “nuovo tipo di scriba”. Anzi, potremmo aggiungere: ognuno che ancora oggi è capace di comprendere le parole di Gesù, anche quelle più difficili (“Avete capito tutte queste cose? Gli risposero: Sì”; Mt 13,51), che quindi sa leggere anche oltre la superficie delle cose, questi è davvero come quello scriba sapiente che ‘penetra le sottigliezze delle parabole, indaga il senso recondito dei proverbi e s’occupa degli enigmi delle parabole’ (Sir 39,2), e che ora può andare alla scuola del Maestro. Dio conceda anche a noi, oggi, “il discernimento dello Spirito” per comprendere la Sua parola e così “apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del suo regno” (Colletta).