Non saremo mai sufficientemente grati a Papa Francesco per aver voluto richiamare l’umanità, attraverso la Laudato si’, a ripensare il rapporto con le risorse limitate del pianeta, nel momento in cui il cambiamento climatico globale diviene irreversibile. Esso è causato dalle emissioni derivanti dallo sfruttamento soprattutto di fonti energetiche fossili (carbone, petrolio, gas naturale), in funzione di una crescita economica illimitata. Tale modello di sviluppo, improntato alla massimizzazione del profitto di pochi, ha indotto lo stato di degrado e di pericolo in cui si trova il pianeta. Gli effetti celeri del fenomeno climatico globale e il rischio a essi associato sono ormai evidenti: a essi dobbiamo adattarci, progettando e praticando nuovi stili di vita, di produzione e di consumo, secondo una logica di equità intra- e inter- generazionale.
Nel Regno Unito, ad esempio, si sta svolgendo la campagna Keep it in the ground (letteralmente ‘lascialo nel sottosuolo’): nella casa comune Terra vi è posto solo per le emissioni di CO2 corrispondenti a un quinto dei combustibili fossili ancora presenti; se ne estraiamo di più, l’aumento di temperatura supererà i 2 °C, soglia che è unanimemente riconosciuta come rischiosa per la sopravvivenza della specie. È opinione largamente condivisa che sia giusto non aumentare l’estrazione di gas e altre fonti fossili, investendo invece sul risparmio energetico e sulle fonti rinnovabili
Richiesto da nove Regioni, il referendum indetto per il 17 aprile intende sottolineare la necessità di una nuova strategia nazionale, che dia priorità all’efficienza energetica e alla valorizzazione delle fonti rinnovabili. Oggetto del referendum è l’abrogazione di una legge che consentirebbe di continuare senza limiti di tempo l’attività estrattiva entro le 12 miglia dalle coste (da notare che in nessun campo le concessioni dello Stato sono illimitate).
I sostenitori del ‘sì’ (vedi le ragioni del NO) considerano importante cogliere l’opportunità referendaria per porre fine a trivellazioni pericolose per i nostri mari. I sostenitori del ‘no’ chiamano in causa il contributo che tali piattaforme darebbero al soddisfacimento del fabbisogno energetico nazionale e all’occupazione. L’estrazione di idrocarburi in Italia ha margini di profitto bassi e le quantità sono esigue: le riserve certe di petrolio sotto i nostri fondali (entro e oltre le 12 miglia) ammontano a meno di due mesi di consumi nazionali, quelle di gas a meno di sei mesi.
Entro le citate 12 miglia dalla costa, in Italia operano circa 90 piattaforme: molte non sono più operative e metà producono al di sotto del limite che consente alle imprese di non versare allo Stato royalties (diritti, tasse) che sono fra le più basse al mondo per le trivellazioni offshore: da noi si paga il 7%, mentre in Norvegia il 78%. Per quanto concerne i dati ambientali (disponibili per 34 piattaforme) il quadro è poco rassicurante: i valori dei parametri sono per la maggior parte sopra i livelli di qualità ambientale. Tra l’altro, alcune delle sostanze riscontrate sono cancerogene e in grado di risalire la catena alimentare, raggiungendo l’uomo e causando seri danni al suo organismo.
Per quanto attiene gli aspetti occupazionali, le piattaforme oggetto del referendum impiegano oggi meno di 80 persone. Tanto più che “l’industria del petrolio non è ad alta intensità di lavoro. Si pensi, per esempio, che la Saudi Aramco, il gigante di Stato saudita che controlla le intere riserve e produzioni di petrolio e gas dell’Arabia Saudita, impiega circa 50 mila persone (molte delle quali solo per motivi sociali) per gestire una capacità produttiva che, nel petrolio, è oltre sette volte il consumo italiano, mentre nel gas è superiore del 40% al fabbisogno nazionale… Anche nel caso di un via libera generalizzato alle trivelle, quindi, è dubbio si possano creare molti posti di lavoro” (Leonardo Maugeri).
La situazione italiana si mostra ancor più nella sua contraddittorietà se si rammenta la serie di provvedimenti governativi che hanno penalizzato duramente il settore delle energie rinnovabili, tanto che nell’ultimo anno e mezzo si stima che in tale settore siano stati persi 60 mila posti di lavoro. Per di più, l’energia in eccesso prodotta dalle fonti rinnovabili, ovvero non consumata da chi la produce, viene oggi venduta a prezzi molto inferiori al costo di mercato.
Come ci ricordano Vincenzo Balzani (Accademia dei Lincei) e Nicola Armaroli (Cnr) nel libro Energy for a Sustainable World: “Per vivere nel terzo millennio abbiamo bisogno di paradigmi sociali ed economici innovativi e di nuovi modi di guardare ai problemi del mondo. Scienza, ma anche coscienza, responsabilità, compassione e attenzione, devono essere alla base di una nuova società basata sulla conoscenza, la cui energia sia basata sulle energie rinnovabili, e che siamo chiamati a costruire nei prossimi trent’anni. L’alternativa, forse, è solo la barbarie”.