Dilungandomi a ciacolare del mio enigmatico disturbo visivo (guardo Papa Giovanni e vedo Papa Francesco, guardo Papa Francesco e vedo Papa Giovanni) ho menato il can per l’aia troppo a lungo: il cane si stanca e l’erba dell’aia si rovina. Bando alle storielle.
La novità che doverosamente la Chiesa dei nostri giorni s’è data è tutta compresa fra due frasi programmatiche, una di Papa Giovanni e l’altra di Papa Francesco.
Papa Giovanni, nel radiomessaggio diffuso l’11 settembre 1962, esattamente un mese prima dall’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II, aveva detto: “Da oggi in avanti, la Chiesa di Cristo sarà la Chiesa di tutti e soprattutto la Chiesa dei poveri”.
Papa Francesco, nell’omelia della messa inaugurale del suo ministero, ha detto: “Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio; anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio… e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, è straniero, nudo, malato, in carcere (Mt 25,31-46)”.
Dalle due frasi programmatiche molti di noi – quorum et ego – hanno estrapolato la parola “povero”. L’abbiamo messa su un piedistallo, l’abbiamo circondata di fiori e di lumini secondo la tradizione caldamente raccomandata dalla Pia Unione dei Sagrestani d’Italia.
E invece all’interno di quei due programmi altre erano le parole da esaltare: tutti (la Chiesa di tutti) e intera (“…e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità”).
Ma vi rendete conto che, in tema di rapporto Chiesa-mondo, eravamo rimasti fermi, in sostanza, a Dante Alighieri, alla teoria dei “due soli” sbilanciata a favore del Papa!
L’uomo – spiega Dante – è destinato alla felicità, sulla terra e in cielo. Di conseguenza, due sono le strade che l’uomo deve percorrere, quella che porta alla felicità terrena e quella che porta alla felicità eterna. E per riuscire a percorrerle ha bisogno che qualcuno gliene illumini il tracciato: il Papa è il sole che illumina la via che porta al cielo, l’Imperatore è il sole che illumina la strada che porta alla felicità terrena.
Il potere di illuminare la via alla felicità terrena, all’Imperatore, non lo dà il Papa, anche se (è la finale del III libro del De Monarchia) “Cesare usi verso Pietro di quella reverenza che il figlio primogenito deve usare verso il padre, affinché, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa illuminare con maggior efficacia la terra, al cui governo è stato preposto solo da Colui che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali”.
Un finalino apparentemente di maniera, che però nella storia della Chiesa ha prodotto danni incalcolabili.