L’episodio della trasfigurazione è comune a tutti e tre i vangeli sinottici. Questi sono anche concordi nel riportare la sequenza degli episodi che precedono il racconto, e cioè la confessione di Pietro a Cesarea e il primo annuncio della passione, morte e risurrezione; a questi, appunto, segue la trasfigurazione. Matteo e Marco subito dopo questa pericope aggiungono un ulteriore annuncio della passione. La logica di tutta questa sequenza è quindi chiara: la trasformazione (questa l’espressione in Mc e in Mt, con il verbo metemorphète) di Gesù davanti ai suoi discepoli deve mostrare la gloria del Messia che sarà invece s-figurato sulla croce.
Come scrive un biblista, abbiamo ora a che fare non più con la reazione scomposta dei discepoli all’annuncio dell’imminente fallimento del Messia: si tratta invece della risposta di Dio all’annuncio della passione. “Mentre il ministero di Gesù è normalmente velato, questa è l’unica volta che quel velo è, per un breve tempo, tolto, e qualcosa della gloria trascendente di Gesù è visibile ai discepoli. La sua morte è imminente, ma Gesù è lo stesso Messia glorioso confessato da Pietro nella precedente pericope” (Hagner). Nell’organizzare la scena, Matteo segue la sua fonte, il Vangelo di Marco, ma subito aggiunge (o chiarisce) che non solo le vesti di Gesù diventano candide come la luce, ma anche il suo volto brilla come il sole (cfr. Mt 17,1; Luca in 9,29 scrive invece che è “l’immagine del suo volto” a cambiare; è quindi incompleta la traduzione Cei: “il suo volto cambiò d’aspetto”‘).
Questo ci porta al contesto biblico in cui l’episodio della trasfigurazione è inquadrato, ovvero la teofania, la manifestazione di Dio ad Israele sul Sinai. Come quello di Gesù era infatti il volto di Mosè che scendeva dal Sinai senza sapere che la pelle del suo viso era raggiante, secondo il racconto di Es 34,29-35. Sei giorni, inoltre, come ricorda Mello, “è il tempo esatto in cui, secondo Es 24,16, la gloria del Signore, cioè la nube, ha coperto il monte Sinai: la gloria del Signore dimorò sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni e il Signore chiamò Mosè, il settimo giorno, di mezzo alla nube”. Infine, ed è il dato più evidente, nella nube con Gesù appaiono Mosè ed Elia, ossia le due figure più significative e rappresentative della Legge, del Primo Testamento. Matteo insiste però soprattutto su un dettaglio, che solo il Primo vangelo ci trasmette, quello della reazione di Pietro, Giacomo e Giovanni, ai vv. 6-7: “All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, e toccatili, disse: Alzatevi e non temete”.
Anche se già Marco accenna alla paura dei tre spettatori, (Mc 9,6), Matteo la amplifica e la rilegge secondo un ulteriore contesto biblico, che pur sempre riguarda una visione: quello del Figlio dell’uomo nel libro del profeta Daniele. Dobbiamo ricordare però che per Matteo la paura non nasce dall’aver visto qualcosa, ma dall’aver ascoltato la voce di Dio. Questa è esperienza tipica del Primo Testamento: vedi, ad es., Dt 4,33, dove l’udire Dio che parla è associato al morire. “Gli stessi elementi teofanici appaiono in Daniele e nel racconto di Matteo, nello stesso ordine: lo splendore luminoso del volto, la voce, il timore, l’incoraggiamento (Gesù che tocca i discepoli con la mano e dice loro: Non temete!” (Mello): ecco allora l’ulteriore chiave di lettura del nostro brano.
Dopo quella che ci ha portato all’esperienza di Israele sul Sinai, qui Matteo ci dice che Gesù è il Figlio dell’uomo, quel misterioso personaggio che nel suo stesso nome afferma la debolezza, ovvero la solidarietà con tutti gli uomini, ma che, venendo sulle nubi del cielo (Dan 7,13), ha anche il potere, la forza e il dominio su tutti i popoli della terra. Giungiamo allora ad una breve conclusione, mettendo in rilievo solo un aspetto dei tanti che emergono dalla simbolica del nostro racconto. Soprattutto qui si gioca, mi pare, sull’apparenza.
Forse proprio ai nostri tempi, immersi nella cultura dell’immagine (espressione, questa, che per lo più evoca impressioni negative), siamo maggiormente in grado di cogliere il senso di quanto accade con la trasfigurazione: per una volta Gesù vuole mostrare “il meglio di se”. Solo dopo la risurrezione i discepoli sapranno quale era la sorte di quel “figlio dell’uomo” che tanto ha sofferto: la vittoria sulla morte. Questa scena ne è l’anticipazione, una specie di promo che vuol dare speranza ai futuri inerti spettatori di ben altro spettacolo, quello della passione. Per una volta, l’apparenza coincide con la verità in essa custodita, l’immagine con la realtà che con essa è significata.