Mercoledì 3 novembre 2004, ore 18: il risultato delle elezioni americane è scontato, anche se i dati definitivi non sono ancora disponibili. I commenti a caldo sono rischiosi, ma qualche accenno è comunque possibile. Quindi proviamo, salvo a tornare su tutto con più ponderazione successivamente. Primo dato: è difficile sottovalutare il peso che la guerra ha avuto su questa elezione. È vero che i sondaggi avevano mostrato come negli ultimi mesi il consenso intorno all’invasione dell’Irak e in generale intorno alla politica di Bush nei confronti del terrorismo fosse, dal grande apice dell’85% di circa un anno fa, molto calato; ma è altrettanto innegabile che il Presidente resta agli occhi degli americani il comandante in capo delle truppe impegnate a rispondere al trauma storico dell’11 settembre. In un paese in cui il patriottismo non è una parola retorica ma un sentimento intensamente e talvolta fanaticamente vissuto e in cui quel trauma non è certo stato dimenticato, questo fattore conta e non poco. Di fronte a tale dato l’insistenza di Kerry sull’idea che la strategia del Presidente sia stata un “madornale errore” non ha fatto sufficientemente presa. Credo che siano molti gli americani ad essere d’accordo con Kerry che l’attacco all’Irak si sia rivelato sbagliato; ma ha contato di più la considerazione che adesso l’America è in guerra e che non si deve disarcionare il comandante in capo in un momento decisivo. Le argomentazioni di Kerry sulla lotta al terrorismo sono ragionevoli e, a mio avviso, condivisibili; ma un popolo animato da un forte senso di coesione contro un avversario che ha così orribilmente violentato la sua dignità non vota né solo né prevalentemente secondo ragionevolezza, vota invece sulla scia del senso di mobilitazione che Bush ha suscitato e coltivato in questi mesi. Di fronte a questo gli altri elementi che avrebbero potuto orientare diversamente la scelta degli americani sono passati in secondo piano. È difficile pensare che una così forte maggioranza di quel popolo sia d’accordo sulla politica ambientale di Bush (mancata sottoscrizione degli accordi di Kyoto e via di questo passo) o che veda di buon occhio la crescita della disoccupazione (due milioni di persone senza lavoro) e il macroscopico lievitare del deficit pubblico (521 milioni di dollari). Così com’è difficile ritenere che sia propensa a dare un giudizio positivo su tagli di tasse che favoriscono quasi esclusivamente le classi medio-alte, archiviando non si sa per quanti anni il problema della povertà. Senza la guerra questi elementi avrebbero forse avuto un peso molto più rilevante, ma la campagna elettorale è stata orientata quasi del tutto sulla lotta al terrorismo, che ha fatto da copertura alle grandi lacerazioni, alle grandi ferite aperte, ai grandi drammi interni. C’è stato uno sbilanciamento tra politica interna e politica estera che ha favorito il candidato capace di capitalizzare sull’adesione emotiva al conflitto contro l’Islam, il “male assoluto”, di fronte al quale gli altri mali, quelli quotidiani e “relativi”, sono passati in sottordine. Ma questo non toglie che questi mali restano con tutta la loro gravità; ed altri se ne potrebbero aggiungere, come la drastica riduzione degli spazi di libertà individuale e collettiva che la lotta contro il terrorismo ha portato con sé. L’America è oggi meno prospera, meno sicura di sé, meno libera, di quattro anni fa, ma per ora tutto questo è come rimosso e le voci che cercano di attirare ancora l’attenzione su questi problemi rimangono minoritarie o si autocensurano in nome di un ideale ritenuto più alto e più urgente da difendere: la dignità e il ruolo mondiale degli Stati Uniti come gendarmi dell’ordine mondiale. Ma almeno due cose si possono dire con scarso timore di essere smentiti. Primo: mai ideale è stato difeso in modo meno efficace (il terrorismo prospera e la strategia statunitense ha diviso e non unito i popoli di tradizione democratica, scavando un solco ancora più grande con parte consistente dell’Europa). Secondo: arriverà il momento in cui le questioni oggi rimosse dovranno essere affrontate: e allora forse gli americani si accorgeranno che il nemico interno (disoccupazione, povertà, emarginazione, discriminazione sociale) non ha fatto meno vittime di quello esterno.
E il ‘nemico’ interno?
Elezioni USA. Kerry riconosce la vittoria di Bush ad urne ancora aperte. Gatti: "Difficile sottovalutare il peso che la guerra ha avuto in queste elezioni"
AUTORE:
Roberto Gatti