Il racconto di Zaccheo ci arriva dalla liturgia dopo un vistoso “taglio” nel Vangelo di Luca che stiamo leggendo. Il lezionario ha infatti tralasciato le pericopi dell’incontro di Gesù con i bambini e con un uomo ricco, e la guarigione del cieco di Gerico, che però avremo occasione di ascoltare in altri cicli dell’anno liturgico. Due episodi importanti accadono dunque a Gerico: la guarigione del cieco, e quello di Zaccheo, che ci è narrato solo da Luca. Il quadro è bellissimo, uno dei più suggestivi del Terzo vangelo. Anche qui – come nella domenica precedente – il protagonista è un “peccatore”, un esattore delle tasse: un pubblicano. Anzi, Luca ci dice (hapax, unico caso in tutta la Bibbia) che è un arci-pubblicano, il capo di questi impiegati statali romani: Gerico, città di frontiera tra Giudea (governata da Pilato) e Perea (sotto Erode Antipa), era un luogo adatto per l’esazione dei dazi. Per questo motivo Zaccheo è ricco. Ma nonostante il denaro, non ha tutto. Vedere ed essere visto.
Luca è preciso nel dirci che Zaccheo è di bassa statura. Ed è proprio tale elemento – che condiziona tanto la storia di quest’uomo – che fa sì che uno dei tanti incontri che Gesù avrà avuto con la gente rimanga impresso ancora nel vangelo e nei nostri cuori. Se Zaccheo sale sul sicomoro per vedere Gesù, proprio per questo fatto viene visto dal Signore che passa (“Gesù alzò gli occhi”; Lc 19,5). Se Zaccheo fosse stato della stessa altezza degli altri uomini e donne di quella folla, forse non sarebbe salito su albero, e forse Gesù non l’avrebbe notato. Umanamente parlando, si tratta di un bel caso nel quale un limite diventa invece una possibilità.
Ma forse non è questa la logica dell’incarnazione, e ancora di più, la stessa ‘logica’ della sofferenza e della morte del Messia? Restare in una casa. Da quel gesto semplice, il “voler vedere” di Zaccheo, discendono tante conseguenze importanti, tanto che la sua vita cambierà, e la salvezza per sempre diventerà feriale. Perché la salvezza, che tutti noi siamo portati ad immaginare come qualcosa di assolutamente straordinario, para-normale, extra-umano, entra invece in una casa. E facciamo ancora fatica a crederlo, e siamo tutti come la folla, che si stupisce e scandalizza (“tutti mormoravano”; Lc 19,7) perché Gesù si intrattiene con uno come Zaccheo o come noi, insomma con qualcuno impuro.
La salvezza è entrata, e non se ne andrà più. Anche se peccatore, Zaccheo è ancora un “figlio di Abramo” (19,9). Come tutti gli Israeliti, gode della sua benedizione, che ora gli giunge attraverso la persona di Gesù. E la sua casa è un po’ la casa di ogni figlio di Israele. Per loro – la sua gente – Gesù è venuto. Attraverso di loro – passando anche nella casa di Zaccheo – la salvezza è giunta fino a noi. E quando la salvezza entra in una casa, non ne esce più. Ripercorriamo la storia del verbo che la Cei traduce con fermarsi (“oggi devo fermarmi a casa tua”, 19,5) e che in greco suona “meno” (“manere” nel latino della Vulgata). Seguendo i dizionari Bauer-Danker e Balz-Schneider io credo sia meglio tradurre rimanere o restare; Gesù allora avrebbe detto: “Devo restare a casa tua”‘. La sfumatura è lieve, ma così tra l’altro ci uniformeremmo con la scelta che la Cei fa traducendo lo stesso verbo in Lc 24,9, dove i discepoli di Emmaus usano lo stesso verbo, ma che questa volta viene reso proprio con restare: “Resta con noi”.
Il verbo si trova soprattutto nell’opera giovannea. Il suo significato fondamentale è appunto quello di rimanere, ma in Gv 1,38 significa anche “abitare”: “Maestro, dove abiti?” (traduce la Cei, ma – ancora una incoerenza? – è lo stesso verbo). In Giovanni sono fortemente teologiche le cosiddette formule di immanenza: Gesù chiede ai suoi di restare con lui (Gv 15,4-7), ma anche egli rimane con loro (Gv 15,5). Infatti nell’uso della LXX (cioè della traduzione in greco della Bibbia per gli ebrei della diaspora) in passi molto importanti soggetto di questo verbo è Dio. “Il permanere è caratteristica divina, a differenza della mutabilità e della caducità delle realtà terrene e umane” (Hauck).
Il verbo nel Vangelo di Luca si usa per Maria, che resta dalla cugina Elisabetta per tre mesi (Lc 1,56), e viene usato, come detto sopra, dai due discepoli che incontrano Gesù ad Emmaus. Qui ricorre addirittura due volte: “‘Resta con noi, perché si fa sera e il sole ormai tramonta’. Ed egli entrò per restare con loro”. La Chiesa ha colto bene il senso di questa presenza, quella del rimanere di Gesù in mezzo al suo popolo, dell’entrare “in casa”, e l’ha insegnato attraverso la devozione per il sacramento dell’eucaristia.
È con quella presenza che il Signore Gesù rimane in modo speciale in mezzo a noi. Se ne è andato, certo, è presso il Padre, e noi non lo vediamo più: allo stesso modo che è uscito dalla casa di Zaccheo e dalla stanza di Emmaus. Ma il verbo rimanere dice qualcosa che va oltre la presenza materiale. Anche se non si vede, Gesù è ancora con i suoi, fino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). Nella sua ultima Lettera apostolica del 7 ottobre 2004, Giovanni Paolo II ha inaugurato l’anno dell’eucaristia con le parole dei discepoli di Emmaus: “Mane nobiscum Domine“, “Resta con noi Signore”. Come Zaccheo, siamo invitati a salire sui nostri sicomori e cercarne la presenza misteriosa mentre passa e rimane con noi.