Essere suoi discepoli

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Giulio Michelini XXIII Domenica del tempo ordinario - anno C

L’occasione per i brevi detti di Gesù del Vangelo di oggi è spiegata nel versetto d’apertura: “Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse”. La gente andava e Gesù si volta. Capiamo che è ripreso il viaggio. Abbiamo lasciato Gesù con i suoi discepoli mentre sono a tavola, così come ricordiamo dal primo versetto del capitolo che stiamo leggendo (Lc 14,1: “Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare”) e dalla situazione del Vangelo di domenica scorsa (sulla scelta dei posti e degli invitati), e ora l’evangelista richiama la nostra attenzione al viaggio che Gesù ha iniziato e che giungerà a compimento nella città santa di Gerusalemme. Il contesto precedente – quello del banchetto – si chiudeva con parole di invito per tutti, estese ad ogni categoria di persone purché la casa sia riempita (Lc 14,23: “Esci per le strade e lungo le siepi, spingili a entrare, perché la mia casa si riempia”); ora invece le parole di Gesù aggiungono qualcosa e chiariscono come poter entrare in quella casa.

Si tratta delle condizioni per seguire Gesù, perché alcune regole per essere discepoli sono necessarie. Ma attenzione. Ancora una volta queste parole, come quelle sopra dette agli invitati alle nozze, sono per tutti, ovvero per tutti coloro che vogliono dirsi cristiani. L’invito ad amare Gesù più dei propri genitori, a portare la croce, e a rinunciare agli averi non è qualcosa per “personale specializzato”, ma per i cristiani.Le parole sul rapporto con la famiglia sono presenti anche nel Vangelo di Matteo, in modo quasi identico (come vedremo subito), ma lì mancano le due brevi parabole, quella sulla torre e quella sul re in guerra, che sono quindi materiale propriamente lucano, che l’evangelista attinge dalla sua fonte speciale. Conviene soffermarsi sulla prima espressione, che può portare a fraintendimenti.

Il linguaggio dell’amare-odiare è effettivamente molto duro: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (14,25). Gesù chiede un rifiuto dei rapporti umani, un isolamento, una rigidità con gli altri, anche con quelli della propria famiglia? No, odiare qui significa “posporre”. È un “ebraismo”, presente soprattutto nel Primo Testamento, come in Gen 29,31 (la Cei qui traduce con “Lia veniva trascurata” l’ebraico “odiata”, cioè messa in secondo piano da Giacobbe) ma anche in Mt 6,24 (“Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona”). Proprio Matteo ci aiuta a capire meglio queste parole, perché le riporta, ma in una forma attenuata, in Mt 10,37: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me”.

In conclusione, Gesù “non dice che il discepolo deve voler il male per i propri familiari o soffocare i sentimenti di affetto che Dio stesso ha messo nel cuore di ogni uomo per i suoi vicini. Non si tratta di negare l’affetto, ma di subordinarlo: viene chiesto al discepolo di posporre, quando è necessario, anche coloro che, per volontà di Dio, occorre amare: i propri familiari” (Rossé). Si tratta quindi di una condizione comune, che può capitare a ciascun credente in Gesù nei rapporti con i familiari ma anche con propri vicini, insomma con quelli che possono risultare un eventuale ostacolo all’essere discepoli. Non si fatica, infatti, a intravedere nelle coppie di termini “padre-madre”, “figlio-figlia”, “fratelli-sorelle” (che raccogliamo sia da Luca sia da Matteo) l’artificio retorico semitico del merismo, con il quale si intende tutto quanto compreso nei termini estremi (come per l'”entrare-uscire” del Sal 121,8, “quando esci e quando entri”, che indica ogni momento tra i due momenti dell’entrare e uscire di casa); nel nostro caso, insomma, si deve subordinare ogni relazione umana a quella con Dio. Indicazioni per tutti i credenti in Cristo, abbiamo già detto, e per ogni momento della vita.

Certo, però, chiunque ha lasciato la propria casa per una scelta di totale consacrazione a Dio potrebbe spiegare queste versetti con la propria esperienza, magari di sofferenza, per il distacco o per l’incomprensione o il disprezzo dei familiari. Cosa dire poi delle divisioni che avranno avuto luogo al tempo dei primi cristiani, quando questi si sono divisi dai fratelli nella fede che non credevano in Gesù? Seguono le parole sul portare la croce, già incontrate in Lc 9,23, e infine le due brevi parabole. Come detto all’inizio di questo commento, è da lì che si parte per capire che cosa comporti essere discepoli. Queste parabole hanno in comune un denominatore che è l’idea della lotta e della perseveranza. Seguire Gesù è come costruire una torre: occorre impegno e costanza, come il costruire una casa sulla roccia (cfr. Mt 7,24); è come andare in guerra, perché spesso ogni la rinuncia quotidiana agli averi comporta davvero una lotta.

AUTORE: Giulio Michelini