Siamo all’interno di quella sezione del Vangelo di Luca – il lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme – che conserva materiale proprio del terzo Vangelo, come la parabola del Buon samaritano. La situazione per la quale viene raccontata da Gesù è invece riportata anche da Marco (12,28-34) e da Matteo (22,34-40). Per questi ultimi l’episodio avviene, diversamente che per Luca, durante l’ultimo soggiorno di Gesù a Gerusalemme; Luca registra anche una diversa domanda da parte del Dottore della Legge, rispetto a quella degli altri sinottici (“Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?”, Lc 10,26), interrogativo che Luca porrà poi di nuovo sulla bocca del “giovane ricco”.
In Mt 22,36 e in Mc 12,36 invece la questione è più teorica, di scuola, tipica di un fariseo o di un maestro della Torà: “Qual è il più grande comandamento della legge?” (Mt), oppure “Qual è il primo di tutti i comandamenti?” (Mc). Luca esce da controversie astratte (tipiche invece, ad esempio, della mentalità ebraica dell’evangelista Matteo, “rabbino”/scriba egli stesso, cfr. Mt 13,52) e arriva a proporre insistentemente il tema pratico del “fare”, verbo ripetuto tre volte nel nostro brano (vv. 25.28.37), quasi come cornice alla parabola. Ma anche Gesù assume il tipico atteggiamento del maestro della Legge, entrando in una diatriba rabbinica e ponendo una contro-domanda: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?” (10,26; la traduzione liturgica Cei attualmente in uso confonde le due domande, e traduce erroneamente la seconda con “Che cosa vi leggi?”; la nuova traduzione Cei del 1997 ha corretto l’imprecisione, seguendo l’originale greco: “come leggi?”).
E racconta la parabola del Buon Samaritano, spiegando egli stesso come deve essere letta, interpretata e vissuta la Legge. In che modo interpretare la Legge. Gesù chiede al rabbi che gli sta di fronte un cambiamento di mentalità: dalla casistica legale si deve passare all’interpretazione vitale della Legge, andando al suo “cuore”, che è comunque l’amore, come dice Gesù: il comandamento “primo” o “più grande” è quello di amare Dio e il prossimo. Dopo tutto, la Legge era stata donata da Dio al suo popolo affinché – parafrasando Luca – “ereditasse la vita eterna” (Lc 10,25): “la Torah prima di essere ‘Legge’ era anzitutto ‘Buona novella’ in quanto rendeva possibile l’adempimento della volontà divina sulla terra” (Soggin).
Per far questo Gesù sposta continuamente il punto di vista, vuole portare ad un totale rovesciamento di mentalità. Alla prima domanda del maestro della legge risponde con una contro-domanda (“Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”, 10,26). Ad una seconda domanda (“Chi è il mio prossimo?”, 10,29), Gesù risponde con la parabola, e alla fine di questa pone ancora un’altra domanda, che però è completamente diversa rispetto a quella di partenza: “Chi è diventato prossimo?” (10,36). Da questo sviluppo apparentemente ingenuo, e che rischia di passare inosservato, deduciamo che invece la pericope di oggi è molto elaborata, affatto semplice, e raggiunge due obiettivi: 1) si dice che il prossimo è il samaritano, 2) ma comunque questa non è la questione più importante: il punto non è tanto vedere chi è il prossimo, ma farsi prossimo. Il prossimo è il samaritano.
A questo punto, a costo di essere pedanti, giova ricordare che il dottore della Legge domandava: chi è il prossimo che devo amare? Gesù afferma che il prossimo è anche l’escluso dall’alleanza. Nella mentalità giudaica infatti il prossimo da amare poteva essere solo “dentro” il popolo di Israele: “esclusi dal concetto di prossimo, dunque dal dovere dell’amore, erano i pagani, i samaritani, qualche volta il nemico personale, o semplicemente chi non faceva parte della propria comunità religiosa” (Rossé). Alla fine della parabola addirittura lo stesso dottore della Legge arriva alla conclusione, affermando che è prossimo (lo è diventato) un samaritano, anche se questi non viene (volontariamente?) chiamato con tale nome (cfr. 10,37).
Allora, anche un samaritano deve essere amato. Diventare prossimo. Gesù inizia interpretando e spiegando il versetto da Lv 19,18 (“amerai il tuo prossimo come te stesso”); la parabola rovescia tutto e obbliga il dottore della Legge a riconoscere che “il samaritano ha agito bene, ha fatto ciò che la parola prossimo implica: essere vicino, creare rapporti; deve quindi riconoscere che il prossimo è colui che fa misericordia” (Rossé). “Il dottore della Legge vuole ereditare la vita eterna. Ora, l’unico mezzo per ottenere la vita è di donarla. Gesù esplicita così il senso dell’amore comandato dalla Legge verso il prossimo. L’uomo che cade nelle mani dei briganti è mezzo morto; è tra la vita e la morte. Il sacerdote e il levita scelgono di lasciarlo morire, il Samaritano gli salva la vita. Amare il prossimo significa aiutarlo a vivere, offrirgli i mezzi per vivere. Amare il prossimo come se stesso significa aiutarlo a vivere” (Meynet).